Come i privati minacciano la democrazia. Cambridge Analytica, ancora tu. Il nemico del giornalismo indipendente in America Latina. L’anno peggiore. Uno sguardo alla propaganda di Pechino oltre i confini cinesi. La macchina mediatica di DeSantis. Cosa vuole davvero Tucker Carlson?

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Come i privati minacciano la democrazia

Un consorzio di testate internazionali ha condotto in questi mesi un’inchiesta giornalistica su rilevanti operazioni di hackeraggio e disinformazione condotte dal cosiddetto “Team Jorge” e relative a oltre trenta campagne elettorali in tutto il mondo. Come raccontato dallo speciale de The Guardian,si tratta di un gruppo di imprenditori israeliani, capitanati da Tal Hanan (ex agente delle forze speciali israeliane che ora lavora privatamente con lo pseudonimo di “Jorge”), che offrono un servizio privato in grado di intromettersi segretamente nelle elezioni senza lasciare traccia. L’indagine, condotta da tre giornalisti sotto copertura, ha rivelato l’attività illecita condotta dal “Team Jorge” che, anche attraverso Advanced Impact Media Solutions (Aims), aveva la possibilità di creare e gestire migliaia di account falsi sui social media che veicolavano messaggi e contenuti per influenzare l’opinione pubblica. La società avrebbe inoltre cercato negli anni di lavorare per Cambridge Analytica (vedi Editoriale 8) con cui, secondo alcuni documenti trapelati dall’inchiesta, il “Team Jorge” avrebbe alla fine lavorato segretamente in occasione della corsa presidenziale in Nigeria nel 2015 (vedi sotto). Da un lato, tale inchiesta ha rivelato nuovamente gravi lacune nelle piattaforme tech che adesso sono chiamate ad una nuova sfida sulla sicurezza per evitare che i loro strumenti diventino sempre più armi in mano a terroristi dell’informazione. Dall’altro, siamo di fronte all’ennesima prova dell’esistenza di un mercato privato globale della disinformazione che continua a minacciare le democrazie. Dopo anni dallo scandalo di Cambridge Analytica, la strada per scoprire se e quanti “Team Jorge” siano attivi nel mondo sembra ancora lunga.

Cambridge Analytica, ancora tu

Come anticipato, dall’inchiesta condotta dal Guardian e da altre testate internazionali è emerso che Cambridge Analytica (l’agenzia di consulenza inglese, indagata nel 2018 per lo scandalo sull’utilizzo di dati degli utenti di Facebook) e il “Team Jorge” hanno interferito nelle elezioni presidenziali del 2015 in Nigeria. Lo scopo era chiaro: screditare Muhammadu Buhari e far rieleggere Goodluck Jonathan, attraverso la diffusione di fake news, anche se al momento non vi è alcuna prova che Jonathan sapesse dei tentativi falliti di Cambridge Analytica o del “Team Jorge”. Lo scambio di email tra i due gruppi rivela le strategie utilizzate e le modalità con cui le società si sono coordinate tra loro, con incontri a Londra, nella località svizzera di Davos e nella capitale nigeriana, Abuja. Sembra che le comunicazioni siano avvenute su account Hushmail crittografati o dispositivi speciali utilizzati per telefonate sicure. Nei filmati dei giornalisti sotto copertura,Hanan ha fatto riferimento esplicito alle elezioni nigeriane del 2015 e ha ammesso di aver avuto un ruolo decisivo in altre trenta elezioni politiche. I diversi ruoli di Cambridge Analytica e “Team Jorge” in Nigeria sono invece descritti nelle email. La società di consulenza britannica è stata incaricata di garantire la copertura da parte dei media internazionali che avrebbero favorito Jonathan e screditato Buhari. Il team Jorge era responsabile della “ricerca sull’opposizione”, ossia di materiale che poteva essere sfruttato per indebolire Buhari. Sempre dalle ricerche del Guardian, è emerso un altro nome che ha giocato un ruolo chiave nel 2015: Sam Patten, il consulente americano che ha gestito la campagna di Cambridge Analytica sul campo. Le email suggeriscono che Patten si sarebbe assunto la responsabilità di sfruttare il materiale e le informazioni che Hanan aveva ottenuto nonostante il personale di Cambridge Analytica avesse avuto forti sospetti che tale materiale fosse stato rubato. Patten avrebbe fatto trapelare tali informazioni tramite i media, tra cui BuzzFeed e il Washington Free Beacon. Quando è stato contattato telefonicamente, Patten ha detto di non ricordare un uomo di nome Tal Hanan o Jorge, negando il suo coinvolgimento nelle attività degli “hacker israeliani”.

Il nemico del giornalismo indipendente in America Latina

Google sta mettendo in difficoltà i media latinoamericani e, con loro, anche le fragili democrazie di quest’area geografica. Qui, infatti, riporta Columbia Journalism Review, gli investimenti del colosso tecnologico per supportare le pubblicazioni di qualità attraverso Google News Initiative stanno dando l’effetto opposto. Il motivo sta negli standard SEO dettati dall’azienda, che comportano costi troppo elevati e con ritorni non immediati per le testate sudamericane e aprono, di conseguenza, un circolo vizioso che le porta a essere penalizzate in termini di investimenti e numero di lettori, vedendo così sfumata la possibilità di provare a recuperare visibilità investendo in SEO.  A risentirne di più sono il giornalismo investigativo e quello locale, perché Google sta portando il panorama mediatico latinoamericano a formare oligopoli difficili da rompere, con pericoli anche per la democrazia. Le recenti elezioni hanno infatti messo in evidenza il livello di polarizzazione di questi Stati, e il pericolo rappresentato da demagoghi e populisti nazionalisti che potrebbero approfittare di questa situazione è concreto. Dall’altra parte, la buona notizia è che dei modi per migliorare la situazione non mancherebbero: una riformulazione dell’algoritmo per bilanciare cosa mostra e maggiori investimenti per permettere ai media di valorizzare la performance SEO sarebbero un ottimo punto di partenza, per esempio. O, ancora, far pagare Google e Facebook per distribuire notizie nei motori di ricerca, come in Australia, una misura che stanno prendendo in considerazione anche USA, Canada, India e Sudafrica; ma è andata diversamente in Brasile, dove Google ha silurato un’iniziativa simile con l’aiuto dell’ex presidente Jair Bolsonaro.

L’anno peggiore

La guerra contro l’Ucraina ha reso gli ultimi dodici mesi in Russia il periodo peggiore in termini di repressione politica nella storia moderna del Paese. Il Financial Times racconta che, secondo il gruppo per i diritti umani OVD-Info, circa 20.000 persone sono state arrestate per proteste e almeno 440 – tra artisti, sacerdoti, insegnanti, studenti e medici – hanno avuto procedimenti penali, alcuni dei quali rischiano condanne fino a 15 anni. Altre sono fuggite. I russi conoscono la repressione da ben prima dello scoppio della guerra quando ancora erano presenti sia i media indipendenti sia le proteste di massa. Ma dal quel 24 febbraio, la repressione ha raggiunto tutti gli angoli della società. Il Cremlino ha chiuso la bocca ai giornalisti dissidenti e criminalizzato i discorsi sulla guerra. Le proteste sono praticamente scomparse. La maggior parte dei giornalisti e degli attivisti sono stati cacciati o incarcerati. Fino a metà dicembre, sempre secondo OVD-Info, in Russia nel 2022 ci sono stati solo 25 giorni in cui non sono state arrestate persone per motivi politici. È stato anche registrato un forte aumento della violenza da parte delle autorità contro i detenuti, compresi diversi casi di tortura nelle stazioni di polizia. Più di 210.000 siti online sono stati bloccati secondo Roskomsvoboda, un osservatore dei diritti su Internet. Facebook e Instagram sono stati etichettati come “estremisti”. Così come accadeva ai tempi dell’Unione Sovietica, per i russi dissidenti “the space for free expression has returned to the confines of one’s kitchen”. Eppure, il consenso di Putin ha quasi raggiunto i livelli del 2008 quando era all’apice della sua popolarità.

Uno sguardo alla propaganda di Pechino oltre i confini cinesi

The Economist riporta un nuovo studio che mostrerebbe l’efficacia della propaganda del Partito comunista fuori dai confini cinesi. 6.000 intervistati in 19 Paesi, divisi in quattro gruppi: il primo è stato sottoposto alla propaganda di Pechino, il secondo a messaggi del governo americano, il terzo ha ricevuto un po’ di entrambi e il quarto era un gruppo placebo. A sorpresa, al termine dell’esperimento la maggioranza delle persone ha affermato di preferire la forma di governo cinese a quella americana. I video cinesi non sembrano aver convinto gli intervistati che il Paese sia democratico, ma hanno rafforzato la percezione che il Partito comunista offra crescita, stabilità e leadership competente. Questo perché – secondo i ricercatori – in “an era of democratic backsliding”, il pubblico attribuisce un peso considerevole a questi fattori quando valuta i sistemi politici. I video del China Global Television Network(CGTN) sono stati particolarmente persuasivi in Africa e Sudamerica, due luoghi in cui gli sforzi dei media statali cinesi sono in aumento. Secondo i sondaggi di YouGov e dell’Università di Cambridge, infatti, vi è un crescente sostegno alla Cina in paesi come Egitto, Kenya, Nigeria e Messico. Tuttavia, la presa del governo cinese all’estero non risulta efficace in Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti, dove è più facile contrastare la propaganda del Partito. L’anno scorso Xinhua, l’agenzia di stampa statale cinese, ha prodotto un video parodia di James Bond che prendeva in giro l’agenzia di spionaggio britannica, l’MI6. “Grazie per la pubblicità gratuita”, ha risposto il capo dell’MI6 a Londra.

La macchina mediatica di DeSantis

In occasione della vicenda che aveva visto il governatore della Florida sospendere il procuratore di Tampa Andrew Warren, è emersa una certa vicinanza tra Ron DeSantis e The Florida Standard, il sito web che ha pubblicato un articolo su un probabile abuso delle risorse dei contribuenti da parte di Warren (articolo che in seguito è stato promosso dai collaboratori di DeSantis ad altre testate). Come riporta NiemanLab, l’episodio rappresenta un case study su come DeSantis, probabile candidato alle prossime primarie dei Repubblicani, stia tessendo una rete di organizzazioni giornalistiche conservatrici “amiche” che lui e i suoi strateghi usano per promuovere la figura del governatore e screditare i suoi avversari. DeSantis sta creando un ecosistema di scrittori di destra, influencer sui social media e altri esperti di marketing in vista del possibile scontro alle primarie contro l’ex presidente Donald Trump (a dicembre, Semafor ha riferito che DeSantis sta “costruendo i propri media”). Il Governatore della Florida è stato inoltre protagonista di un altro episodio: il suo staff avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’approvazione della recente legge per rimuovere l’obbligo per le amministrazioni locali di pubblicare determinati avvisi sui giornali locali per avvisare i cittadini di imminenti azioni governative. Questi avvisi rappresentavano un’importante fonte di guadagno per i giornali, soprattutto per quelli piccoli indipendenti.  DeSantis non è certo il primo politico a sfruttare il potenziale dei media. Ma ciò che lo rende diverso è il modo supporta i media conservatori con politiche pubbliche volte a destabilizzare i media indipendenti.

Cosa vuole davvero Tucker Carlson?

The New York Times fa un ritratto del conduttore di Fox News Tucker Carlson, “ossessionato dalle cospirazioni” del programma che conduce definito dal quotidiano come “il più razzista nella storia delle notizie via cavo”. A tal proposito, vi è lungo dibattito sul fatto che lo show di Carlson sia “merely lucrative theater” o un’espressione dei suoi veri valori. A detta di molti, Carlson condivide i profondi risentimenti culturali di Donald Trump ma, a seguito della causa per diffamazione di Dominion Voting Systems contro Fox News, non andrebbe sottovalutata la pura avidità. Tale causa rivela l’ossessione di Carlson e di altre figure di spicco di Fox News per il pubblico di destra, ingolosito anche da altri canali quali Newsmax. Carlson sembra aver rinunciato ad allontanare il suo pubblico dalle affermazioni di Trump sulle elezioni, anche se in privato lo ha definito “demonic force”. Il 26 gennaio scorso, poi, Carlson ha ospitato nel suo programma il fondatore di MyPillow, Mike Lindell, e gli ha permesso di parlare di Dominion senza opporre resistenza. Sembra che Carlson avrebbe avuto un motivo in particolare per assecondare Lindell, oltre a quello degliascolti; come ha sottolineato Media Matters for America, all’epoca MyPillow era il principale inserzionista di Carlson.

*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Per maggiori informazioni: www.storywordproject.com

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