[CONTRIBUTO] La forza della resistenza palestinese

4 months ago 18

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

La settimana appena finita è stata tra le più amare per l’esercito di Israele, che un giorno – un giorno irrimediabilmente lontano – veniva descritto come esercito onnipotente, invincibile. Ebbene, per un esercito del genere, nutrito dal doping del suo mito, per un esercito che finge di essere a Gaza per liberare gli ostaggi del 7 ottobre, niente di peggio poteva esserci di dover ammettere di averne assassinati tre che avanzavano, ovviamente disarmati, sventolando bandiera bianca. Questo episodio rivela a quale livello di ferocia e di paura è giunto l’esercito occupante: del tutto incapace di identificare dove sono tenuti gli ostaggi del 7 ottobre, incapace di liberarne uno di numero, ma pronto, prontissimo, a falciare qualsiasi essere umano (“animale con sembianze umane”, s’intende) si muova nel territorio di Gaza. Appena due tre giorni prima un ex-comandante della Brigata Golani, corpo di élite, aveva ammesso che nella battaglia di Gaza la brigata ha perso un quarto dei suoi effettivi. L’ammissione è avvenuta dopo la caduta sul campo di dieci suoi componenti (alcune fonti dicono 9, altre ancora 8) in una trappola tesa dai guerriglieri del Comando unificato della resistenza, che a stare alle roboanti dichiarazioni di Netanyahu e di altri macellai sarebbero stati annientati in quattro e quattr’otto.

La realtà effettiva è diversa, molto diversa. Mentre il governo sionista è oramai obbligato a ipotizzare una guerra lunga mesi, il generale Gantz riconosce che “stiamo subendo grandi perdite nella striscia di Gaza”. Non, dunque, i 118 caduti ammessi ad oggi dal governo (dati di Times of Israel), bensì qualche multiplo di essi che non ci è noto – Haaretz dà comunque per certo che si tratti di un multiplo; Ariel Shimon, un giornalista di Yedioth Ahronoth, poi escluso dalla redazione, ha fornito una stima dei caduti israeliani (tra ufficiali e soldati) pari a 3.850 e ha parlato (giorni fa) di 7.000 feriti, la metà dei quali con disabilità permanenti. Dei soldati ufficialmente caduti Yedioth Ahronoth sostiene che il 20% siano caduti per ‘fuoco amico’ o incidenti, 13 siano stati scambiati per combattenti palestinesi, 6 travolti da mezzi blindati, 1 ucciso dai bombardamenti a tappeto – il che dà un’idea del carattere caotico delle operazioni militari, dell’impreparazione alla battaglia di un certo numero di elementi, e del panico che regna tra i soldati dell’occupazione, decisamente più “abili” quando si tratta di assassinare donne e minori senza armi. Una settimana fa, secondo Haaretz (vedi riquadro sotto), risultavano feriti almeno 5.000 soldati israeliani, 2.000 in modo così grave da essere considerati disabili, mentre il 58% aveva riportato ferite gravi alle mani o alle gambe – i dati si ricavano dal numero di militari ricoverati negli ospedali di Israele. Insomma, sebbene precedute da bombardamenti devastanti, le truppe israeliane stanno incontrando a Gaza una forte resistenza tant’è che, sempre su Yedioth Ahronoth, si riconosce che l’unica possibilità di ottenere la liberazione degli ostaggi è la tregua: una tesi opposta a quella dei comandi politici e militari.

Uno smacco pesante per l’esercito e il governo sionisti (o ultra-sionisti) dopo quello terribile del 7 ottobre – di cui abbiamo già detto.

Sul fronte opposto, per quanto si debba fare la tara sul tasso di propaganda, il portavoce delle Brigate al-Qassam può affermare che “le file dei combattenti della resistenza sono coese e forti”, e alcune migliaia di essi “attendono il loro turno nei combattimenti”. Del resto, se dopo 70 giorni di bombardamenti indiscriminati da fine del mondo (la CNN ha riferito che il 50% delle 30mila bombe aria-terra scagliate da Israele/USA/UE su Gaza erano “senza guida”), la resistenza palestinese a Gaza è ancora in grado di lanciare quotidianamente decine e perfino centinaia di razzi auto-costruiti, di droni da attacco e droni modellati per contrastare quelli israeliani, la sua forza non può essere messa in discussione. Né può esserlo l’effetto dirompente che questa forza ha su truppe che si sono inoltrate nel territorio di Gaza con la certezza di aver spianato i propri nemici al punto da poterli incitare alla resa. Riflettendo sullo smacco militare e psicologico subìto in Vietnam con l’offensiva del Tet (partita a fine gennaio 1968), Kissinger ammise: “il guerrigliero vince se non perde, mentre l’esercito convenzionale perde se non vince”. Non è possibile, è quasi ovvio, pronosticare una vittoria sul campo della resistenza palestinese a Gaza. Ma ogni giorno che passa senza che l’esercito di Israele abbia sgominato le forze della resistenza, l’intero apparato bellico sionista – le cui perdite di ferraglia ammontano ormai a quasi 300 carri armati e mezzi blindati – perde ulteriore prestigio sia sul piano internazionale che in termini di forza di coesione politica interna, mentre avviene l’opposto per i contingenti della resistenza palestinese. Che, torniamo a ripeterlo, non si riducono a quelli di Hamas – si può vedere qui la rivendicazione di una serie di azioni compiute tra l’11 e il 18 dicembre dalle formazioni della sinistra storica del movimento di resistenza palestinese (Fronte popolare di liberazione della Palestina, Fronte democratico di liberazione della Palestina); in questi comunicati si può vedere anche la fiera rivendicazione di saper resistere “contando solo su noi stessi senza alcun sostegno esterno, mentre il ponte aereo americano-britannico continua a rifornire il nemico di armi e munizioni”.

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Non a caso negli ultimi giorni è emerso un elemento scomodissimo per Israele e i suoi protettori occidentali: nell’attacco genocida a Gaza sono in azione anche truppe mercenarie molto ben retribuite (3.900 euro a settimana, pare). La rivelazione si deve all’intervista rilasciata da un mercenario spagnolo, Pedro Diaz Flores (27 anni), a El Mundo (intervista contestata tuttavia da El Confidential). Costui, che sarebbe reduce dall’Ucraina (con individui del genere meglio procedere con le pinze), afferma che la sua organizzazione fornisce un “supporto di sicurezza alle truppe delle forze armate israeliane e ai convogli di armi che si trovano nella striscia di Gaza”. Costui non è la sola fonte, e neppure la principale, al riguardo, perché è arrivata addirittura nel parlamento sud-africano la discussione intorno alla presenza di truppe mercenarie sud-africane a Gaza – il che ha suscitato parecchio imbarazzo perché il governo di Pretoria vanta in pubblico il congelamento delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (è l’unico dei Brics ad avere fatto almeno la mossa…). Inoltre un gruppo mercenario statunitense, il Forward Observations Group, si è vantato di avere molti dei propri contractors a Gaza; notizie confermate indirettamente da fonti di Mosca, che attestano la smobilitazione in Ucraina di forti contingenti di mercenari statunitensi e di altri paesi convinti che ormai la situazione è lì irrecuperabile, come del resto in effetti è.

La presenza di truppe mercenarie è negata dai comandi dell’Idf, umiliati dalla fuga di notizie imbarazzanti, ma pare difficile ascriverle alle eventuali fake news della propaganda di guerra palestinese. Infatti le agenzie d’informazione palestinesi sono costrette ad occuparsi di tutt’altro: i loro dispacci sono naturalmente concentrati sulla denuncia e la documentazione del genocidio in atto. L’ultimo di essi riguarda, ad esempio, l’assalto all’ospedale Kamal Adwan a Beit Lahia a nord della striscia di Gaza nel quale, al momento di ritirarsi, l’esercito sionista ha seppellito vivi nel cortile dell’ospedale civili palestinesi sfollati e feriti. Pochi giorni prima, l’11 dicembre, questi “civilizzatori” avevano bombardato il reparto maternità dell’ospedale, uccidendo due donne e i loro figli, per abbandonarsi in seguito ad ogni tipo di atrocità.

Tuttavia né la forza della resistenza palestinese; né il pesantissimo impatto che le operazioni di guerra stanno avendo sull’economia israeliana in conseguenza del richiamo di 300.000 riservisti sottratti alle attività produttive; e neppure il pieno di solidarietà che il popolo palestinese sta ricevendo dal campo degli oppressi e degli sfruttati di (quasi) tutto il mondo, da ultimo con il riuscitissimo sciopero dell’11 dicembre in Cisgiordania, Giordania, Libano, debbono farci dimenticare per un solo attimo che, per intanto, il genocidio continua. E che le terribili devastazioni delle città e dell’ambiente della striscia di Gaza, il blocco dei rifornimenti, l’inquinamento delle acque, la distruzione sistematica degli ospedali, le epidemie e tutto il resto hanno creato le condizioni di un massacro differito assai maggiore di quello fin qui compiuto con i bombardamenti. Per cui per quanto sul piano strategico, sul lungo periodo la sorte dello stato d’Israele possa considerarsi segnata, è urgente continuare e rilanciare la mobilitazione di massa per imporre la fine del genocidio lungo le linee tracciate dall’assemblea di Bologna del 10 dicembre nella sua risoluzione conclusiva:

“mentre siamo impegnati a costruire una giornata internazionale contro le guerre imperialiste – quella in Ucraina come quella contro Gaza – intendiamo lanciare nell’immediato le seguenti iniziative:

1) un appello internazionale a tutte organizzazioni sindacali classiste e combattive per una giornata di sciopero internazionale contro il genocidio a Gaza;

2) contestualmente allo sciopero, promuovere una giornata di lotta che punti non solo a mobilitare la piazza, ma anche a colpire nel concreto gli interessi economici israeliani e il traffico di armi;

3) costruire momenti di denuncia e di controinformazione fuori alle ambasciate di Israele e dei suoi fiancheggiatori, e/o alle sedi dei principali mass-media (a partire dalla RAI) contro la vergognosa propaganda di guerra, supina e funzionale all’occupazione e all’aggressione sionista.”.

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