Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Abbiamo voluto attendere che si concludesse lo scambio di colpi tra Israele e Iran per dire la nostra, che – però – a vicenda per il momento conclusa, resta identica: nonostante le possibili (e realmente esistenti) illusioni a riguardo, l’innalzamento della tensione tra i due stati non giova alla causa palestinese.
Un indizio di fondamentale importanza dovrebbe essere nel fatto che è stato il regime sionista a prendere l’iniziativa di colpire duro a Damasco abbattendo mezza ambasciata iraniana e alcuni alti ufficiali del regime di Teheran. Un avvertimento dato in due direzioni: verso gli Stati Uniti e l’Europa; verso l’Iran. Ai suoi protettori la banda di Netanyahu (e la sua finta opposizione) hanno mandato a dire: noi siamo in grado, e siamo determinati, se necessario, a far deflagrare la guerra in tutto il Medio Oriente, ben sapendo voi Stati Uniti, voi Unione Europea, non siete pronti a questo. Ricatto pesante. Ai prudentissimi ayatollah (che, ricordatelo, avevano sconsigliato Hamas dall’agire in modo offensivo, e che fino alla fine di marzo hanno tenuto un profilo d’azione molto basso) lo stato sionista ha mandato a dire: continuate a restare prudenti, perché noi siamo in grado di colpirvi duro (il sottinteso riguarda le centrali di arricchimento dell’uranio e quant’altro di strategico possa essere colpito). Altro ricatto pesante.
Dopo l’attacco del 1° aprile, era impossibile, per Teheran, restare con le mani in mano, salvo perdere la faccia. La risposta è stata accorta, spettacolare, di sicuro dannosa per il mito di invincibilità di Israele – già fatto a pezzi dall’offensiva della resistenza palestinese del 7 ottobre -, ma nello stesso tempo prudente. Un piccolo capolavoro tattico, nell’esclusivo interesse dell’Iran come potenza regionale, senza nessuna ricaduta positiva per il popolo palestinese. Anzi.
Vediamo il perché, partendo dai rapporti Iran-Stati Uniti.
Se non fosse stato già sufficientemente chiaro, ci ha pensato il direttore della CIA in persona, William Burns, a svelare il “segreto”: gli Stati Uniti erano stati molto ben informati, per tempo, dell’operazione iraniana contro le basi militari israeliane di Nevatim e Ramon attraverso il capo dell’intelligence turca (Mit). Da parte sua, la Mit turca ha ammesso che “l’Iran ci ha informato di ciò che sarebbe successo in anticipo. Gli Stati Uniti hanno comunicato all’Iran attraverso di noi che questa reazione doveva avvenire entro certi limiti”. A sua volta l’Iran “ha affermato che la reazione sarebbe stata una risposta all’attacco di Israele alla sua ambasciata a Damasco, e che non sarebbe andata oltre”.
Gli intelligenti redattori del sito “Giubbe rosse”, che di rosso non hanno nulla (trattandosi, per lo più, di travestiti provenienti da Terza Posizione), hanno definito il lancio iraniano di centinaia di droni e di missili da crociera e balistici contro il territorio israeliano “una operazione telefonata, modulata selettivamente contro Israele, con rigorosa esclusione di ogni obiettivo statunitense e fatta apposta per minimizzare le vittime civili”. Gli arci-nemici di Washington e Teheran che conversano tra loro per giorni per concordare le modalità della risposta (obbligata) di Teheran alla distruzione dell’ambasciata iraniana a Damasco, e che – a risposta avvenuta – quasi all’unisono affermano: è finita qui. Washington addirittura ha anticipato al governo Netanyahu che, se ha partecipato, e in modo decisivo, alla neutralizzazione dell’attacco iraniano, non avrebbe partecipato invece ad un nuovo attacco israeliano sul territorio iraniano.
La stessa valutazione ritroviamo in testi di R. Iannuzzi, G. Gaiani ed altra gente del mestiere (esclusi ciarlatani). R. Iannuzzi scrive: “fin da subito l’Iran aveva comunicato a Washington – tramite l’incaricato d’affari dell’Ambasciata svizzera che rappresenta gli interessi americani a Teheran – che una rappresaglia iraniana era imminente, ammonendo gli USA a non intervenire in modo da evitare un’ulteriore escalation. Ciò ha permesso a Israele e ai suoi alleati di preparare minuziosamente le contromisure difensive per un attacco ampiamente atteso. Anche i paesi limitrofi sono stati esplicitamente preavvertiti da Teheran, ricevendo assicurazioni che l’Iran non intendeva andare oltre quella singola azione di rappresaglia.” Ma non basta: “Fonti iraniane hanno dichiarato di aver informato gli USA, attraverso canali diplomatici che hanno incluso Qatar, Turchia e Svizzera, sul giorno dell’attacco, e che quest’ultimo sarebbe stato condotto in maniera tale da evitare di provocare una risposta”.
Del resto, aggiunge con fredda obiettività Iannuzzi, “né Hezbollah né Teheran, i due membri di gran lunga più influenti di questo schieramento [il cosiddetto “asse della resistenza” – n.], si sono mostrati disposti a scendere in un conflitto aperto con Israele per soccorrere l’alleato di Gaza”. Fino al bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, infatti, “l’Iran aveva mostrato chiaramente di non volere un allargamento del conflitto. Teheran ha esercitato pressioni sulle milizie sciite irachene affinché cessassero i propri attacchi contro le basi USA in Siria e Iraq, ed esortato Hezbollah a non fornire alibi a Israele per lanciare una guerra su vasta scala in Libano, ammonendo l’alleato libanese che avrebbero dovuto combattere per proprio conto se un simile conflitto fosse scoppiato”. Alcuni cialtroni interclassisti immaginano il cosiddetto “asse della resistenza” come un blocco compatto, mentre non ci stancheremo di dire che le azioni di solidarietà alla causa e alla resistenza palestinese sono molto differenziate; e la variabile decisiva della loro intensità ed efficacia è data da un lato dalla mobilitazione delle masse oppresse: massima in Yemen, minima, e controllata dallo stato, in Iran, dall’altro dagli interessi di potenza, ancora una volta minimi (o del tutto inesistenti) in Yemen, massimi in Iran.
A sua volta, G. Gaiani giudica la replica israeliana all’“attacco telefonato” e lungamente preavvertito di Teheran al territorio israeliano “blanda”, accuratamente “limitata”, “quasi simbolica” in modo da evitare di “scatenare ulteriori risposte dell’Iran”. E riporta una valutazione del New York Times secondo cui i comandi dell’esercito israeliano, che avrebbero mal calcolato la possibile risposta iraniana al bombardamento di Damasco, siano stati fermamente ‘consigliati’ da Washington a non ripetere l’errore.
Che diavolo sta succedendo? L’attacco israeliano del 1° aprile e la risposta iraniana del 13-14 aprile sono stati forse tutta una messinscena, come suggerisce il superficiale Orsini?
Assolutamente no. Si tratta, al contrario, di un primo passo verso il possibile allargamento del conflitto bellico in Medio Oriente e la sua trasformazione da guerra coloniale di Israele e dei suoi protettori occidentali contro il popolo palestinese in una guerra tra stati (è il caso di aggiungere: capitalistici?) che inghiottirebbe completamente, sussumendola ad interessi di potenza, e non di liberazione, la causa palestinese. Con ogni probabilità, se la dinamica aperta dall’attacco sionista a Damasco non dovesse arrestarsi, sarebbe un nuovo fattore di accelerazione verso una nuova guerra mondiale inter-imperialista – non bastasse, come innesco, la guerra in Ucraina, sempre più in via di catastrofico allargamento. Per lo scoppio immediato di una guerra nell’intero Medio Oriente, però, né gli Stati Uniti né l’Iran sono pronti: si spiega così la loro momentanea convergenza nel raffreddare la situazione.
Parzialmente diverso è il caso di Israele. Non è stato solo il governo Netanyahu a spingere verso l’attacco a Teheran: è stato l’intero apparato sionista in difficoltà per il mancato raggiungimento, finora, dei suoi obiettivi nell’operazione-genocidio, a quasi sette mesi dal suo avvio. Ma il fatto che sia stato possibile neutralizzare “il 99%” dei droni e dei missili lanciati dagli iraniani (o qualcosa del genere) solo con l’aiuto determinante di Stati Uniti, Regno Unito e un insieme di paesi arabi (Giordania in testa), potrebbe aver indotto ad una maggior prudenza gli stragisti di Tel Aviv. Il condizionale è d’obbligo, perché si tratta di macellai di umani convinti da sempre, come ha sostenuto in modo sfrontato Gallant, di poter fare tutto quello che credono di dover fare per attuare i propri piani di colonizzazione senza limiti della Palestina storica, e – come è scritto sul frontespizio della Knesset – dell’intero spazio tra i due fiumi (il Nilo e l’Eufrate). Data l’assoluta impunità accordatagli per quasi un secolo da tutta la “comunità internazionale” dei banditi loro pari, nulla è possibile escludere, se si fa mente locale al fatto che sono in ballo sanzioni contro Teheran per la sua replica, benché telefonata e annunciata, ma non per l’aggressione israeliana sul territorio siriano. Ma sembra che, al momento, Israele stia per incassare qualcosa che gli interessa molto: il via libera, ufficiale o non ufficiale non cambia nulla, di Washington e dell’Unione europea alla seconda fase del genocidio di Gaza: l’attacco massiccio a Rafah.
Non è un caso che sulla stampa occidentale se ne parli apertamente come di uno scambio tra Washington e Tel Aviv già concluso: fine delle provocazioni contro Teheran, via libera, e totale protezione, per la “soluzione finale” del problema-Rafah. Che appare, purtroppo, a quel che pare, imminente. Qui coglie il segno l’amara riflessione di Tariq Kenney-Shawa su “Al-Shabaka”, che val la pena riportare per intero:
“L’attacco altamente coreografico dell’Iran ha conseguito esattamente ciò che voleva: ottenere preziose informazioni sulle capacità di difesa aerea israeliane, americane e regionali, costando a Israele e ai suoi benefattori statunitensi oltre 1 miliardo di dollari in una sola notte; dimostrare la dipendenza di Israele dagli Stati Uniti, erodendo ulteriormente l’immagine di invincibilità militare di Israele. In tal modo, l’Iran ha anche inviato un chiaro messaggio che i suoi droni e missili potrebbero causare danni significativamente maggiori se lanciati senza preavviso, pur lasciando aperta una finestra per la de-escalation.
“E’ importante capire che l’Iran ha agito per i propri interessi il 13 aprile, non in risposta al massacro israeliano di oltre 33.000 palestinesi. Non c’è dubbio che l’attacco dell’Iran abbia già distolto l’attenzione dal genocidio israeliano a Gaza e soffocherà temporaneamente le crescenti richieste di condizionare o tagliare gli aiuti militari a Israele. In effetti, poca attenzione è stata prestata alle notizie di forze israeliane che hanno aperto il fuoco sui palestinesi nel nord di Gaza poche ore dopo la conclusione dell’attacco iraniano. Nel frattempo, Israele sfrutterà questa opportunità per rafforzare la sua [apparente] posizione di Davide contro una regione di Golia, nonostante sia un potere militare egemone a livello regionale, dotato di armi nucleari. (…) Ciò che è chiaro è che Israele coglierà l’attuale escalation regionale come un’opportunità per distrarre il mondo dalla sua campagna genocida a Gaza e gli Stati Uniti continueranno a non fare nulla per fermarla.”.
L’indubbio rafforzamento del regime degli ayatollah iper-capitalisti in questo scambio di colpi con Israele non coincide affatto con il rafforzamento della causa palestinese. In un colloquio con la redattrice-capo di +972 Magazine Ghousoon Bisharat, Khaled Elgindy arriva ad una previsione altrettanto amara, ma secondo noi fondata:
“Penso che ci sia una reale possibilità che, in cambio della de-escalation di Israele con l’Iran, gli Stati Uniti diano a Israele una maggiore libertà d’azione a Gaza, in particolare per quanto riguarda Rafah. Sappiamo che Benjamin Netanyahu e il suo gabinetto di guerra hanno chiesto con entusiasmo il “permesso” di intervenire a Rafah e di fare lì quello che hanno fatto a Gaza City e Khan Younis. Vogliono replicare quel tipo di distruzione. Gli Stati Uniti e la comunità internazionale [degli assassini amici di Israele – n.] hanno detto loro che questa era una linea rossa. Quella linea rossa potrebbe ora essere cancellata se questo fosse l’unico modo per gli Stati Uniti di convincere Israele ad allentare l’escalation con l’Iran.
“Questa è una possibilità plausibile perché il calcolo dell’amministrazione Biden era essenzialmente che è accettabile, purché il prezzo [della guerra] sia pagato principalmente dai palestinesi. Non appena i costi/effetti vanno oltre Gaza e i palestinesi – un fronte con Hezbollah, Iran, Siria o altri attori – la situazione diventa più preoccupante. Ma in realtà [Biden&soci] non hanno problemi con i palestinesi che ne sopportano le conseguenze.
“Per quanto riguarda il fronte settentrionale [con Hezbollah], tutto dipende dalla reazione di Israele. Penso che al momento gli iraniani abbiano indicato che hanno finito con questo attacco e che non stanno cercando un’ulteriore escalation. Hezbollah ovviamente lo rispetterà – non agirà contro gli interessi iraniani. Se Israele lo supera, allora sì, è possibile che Hezbollah venga trascinato in una guerra più ampia e nell’espansione di quel fronte.”
Per il momento Israele ha accettato di mettere il freno in direzione Teheran. Ma, in “compenso”, scalpita per portare a termine l’operazione-genocidio attaccando Rafah con lo stesso metodo sterminista con cui ha distrutto Gaza e Khan Younis, onde poter dimostrare di essere “invincibile” e di aver “sradicato Hamas”. Costi quel che costi. Se l’attacco a Rafah è stato finora posticipato, non si deve certo alle remore “umanitarie” di Washington o delle capitali europee, bensì al fatto che inevitabilmente, sferrandolo, il governo Netanyahu entrerà in attrito anche con l’Egitto, che teme come la peste lo sconfinamento in massa dei palestinesi nella zona contigua a Rafah – una zona fortemente depressa sul piano economico e rancorosa verso il potere centrale egiziano perché i progetti di infrastrutture sono bloccati e tutto il denaro disponibile va da tempo alle zone turistiche del sud. Con il risultato che è stata la zona di insediamento principale, se non unica, dell’Isis negli anni passati, e con l’arrivo di una massa di profughi palestinesi diverrebbe una polveriera. Ma la banda Netanyahu è pronta ad ogni avventura pur di imporre quella che sogna essere “la soluzione finale” della questione palestinese, sicura di poter trascinare dietro di sé, comunque vada, i suoi storici protettori e complici. E abbastanza sicura di non dover temere più di tanto l’azione di Teheran, se si terrà lontana dagli interessi vitali iraniani, tra i quali non c’è la liberazione della Palestina per mano della resistenza palestinese.
Ancora una volta il solo elemento di freno alla prosecuzione del genocidio è dato dalla forza del movimento mondiale di solidarietà con la Palestina, che in questi ultimi giorni è stato particolarmente attivo nelle università statunitensi denunciando la totale copertura data da Biden&Co. al genocidio (Trump, da parte sua, ha già garantito che sarà ancor più determinato di Biden in questo) – una contestazione a cui hanno partecipato gruppi studenteschi e associazioni di ebrei anti-sionisti. Ed è sempre la forza, ancora limitata ma quanto mai reale, di questo movimento – unita a quella della resistenza palestinese – a non consentire alla Corte penale internazionale di insabbiare il procedimento aperto nei confronti degli assassini seriali che governano lo stato israeliano, e a spingerla addirittura a ventilare un possibile mandato di arresto per Netanyahu, Gallant e Halevi.
Ecco perché l’imperativo politico del momento è raddoppiare gli sforzi per rilanciare ovunque la mobilitazione di piazza per impedire l’attacco a Rafah e imporre il cessate il fuoco definitivo nella striscia di Gaza.
Abbiamo ascoltato attentamente l’ultimo messaggio (che circola in rete) del comandante delle Brigate al Qassam, Abu Ubaydah. Se si mette tra parentesi il suo linguaggio religioso, il suo contenuto politico è una rivendicazione integrale ed orgogliosa, giustamente orgogliosa, della forza che la resistenza palestinese ha mostrato e continua a mostrare nello scontro con l’esercito “nazista” e “sadico” degli “invasori” che con la sua furia di “vendetta cieca, indiscriminata, distruttiva” sta sfigurando definitivamente la sua immagine davanti al mondo, mostrando la sua totale estraneità alla terra che pretende di occupare per sempre. Nello stesso tempo, più che in altri precedenti messaggi, dopo un accenno al “tradimento” (non specificato, ma evidentemente di forze ritenute amiche), c’è un appello alle “masse, alle nazioni, alle forze della nostra grande nazione [un riferimento che può avere un doppio significato: arabo e “islamico” – n.] e ai popoli liberi del mondo ovunque essi siano”, che non è nuovo, ma ci pare formulato con particolare intensità. Forse l’ala combattente sul campo di Hamas si rende conto che le speranze che ha riposto sugli “stati amici” sono stritolate dalla realpolitik di questi regimi borghesi, disposti a sacrificare la causa palestinese ai loro interessi di potenza. Per cui, mentre il tradimento di lunga data dei regimi arabi si riconferma in pieno (in Egitto chi manifesta a sostegno dei palestinesi viene arrestato!), e così pure l’irriducibile ostilità alla causa palestinese di tutto l’establishment occidentale, ad impedire il genocidio a Rafah pianificato dai sionisti non resta che la forza delle masse oppresse del mondo arabo e “islamico” e di tutto il mondo.
Non siamo in grado di valutare se sono autentiche oppure no quelle che la stampa mainstream presenta come le “ultime proposte” dell’ala politica di Hamas: cinque anni di tregua in cambio dello stato palestinese. Ma siamo certi di un fatto: oggi più che mai la causa della resistenza e della liberazione palestinese è la causa della resistenza e della liberazione degli oppressi e degli sfruttati di tutto il mondo – e il nemico da battere, per il popolo palestinese e per noi che ne sosteniamo da sempre la lotta di liberazione nazionale e sociale, è anzitutto e prima di tutto la “comunità” degli sfruttatori e degli oppressori sionisti e occidentali. Ma senza farsi alcuna illusione su quell’altra genia di profittatori che a Teheran, a Pechino, a Damasco, e forse anche a Mosca, storica alleata di Israele, conta di potersi ingrassare con il sacrificio e il sangue dei palestinesi. Basterà dire che prima Mosca (con Lavrov) e poi Pechino hanno convocato a rapporto Hamas e gli altri gruppi della resistenza per costringerli a riappacificarsi con i collaborazionisti con Israele dell’ANP: che grandi amici della causa palestinese!
Riferimenti
https://al-shabaka.org/roundtables/palestinian-perspectives-on-escalating-iran-israel-relations
Ci permettiamo qui di richiamare, su questi stessi temi, un testo della TIR del 9 dicembre scorso contestato dagli ambienti “rosso”-bruni, ma pienamente confermato dalla realtà:
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