Davos, un circolo vizioso per il giornalismo economico. Una propaganda che ha definito un popolo. Il Russiagate è una fake news? Gli informatori non credono più nei giornalisti. La corsa al Pirellone sui social. Tik Tok negli USA: patti chiari, amicizia lunga. Social media, una riflessione del WSJ.

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Davos, un circolo vizioso per il giornalismo economico

Secondo il Columbia Journalism Review, il comportamento dei media al World Economic Forum è piuttosto contraddittorio. Ad esempio, il terzo giorno del Forum, Semafor ha sollevato qualche critica sulla miopia intorno ai discorsi del meeting. Eppure i giornalisti continuavano ad arrivare, in massa, desiderosi di raccontare il Forum e di assicurarsi i posti migliori ai giusti party. Nel 2012, Nick Paumgarten del New Yorker, nel tentativo di capire il motivo per il quale tutti i giornalisti fossero lì, scrisse che alla gente piace proiettare su Davos le proprie paure e fantasie su come funziona il mondo, sottolineando come la destra veda nel Forum un liberalismo “delirante” mentre la sinistra una “Star Chamber of master puppeteers” che decide le sorti del mondo. Nulla, a quanto pare, è cambiato nel decennio successivo. E Davos dimostra ancora come la stampa fraintenda i ricchi e l’economia in generale. Ma siamo arrivati ​​al punto in cui niente di tutto questo è più divertente. Forse sarebbe da ripensare la nozione stessa di giornalismo economico. Perché deve essere separato dai reportage nazionali e politici? Perché continua a girare attorno agli amministratori delegati, piuttosto che ai lavoratori che dovrebbero essere al centro delle storie? Perché la stampa non manifesta lo stesso scetticismo che ha nei confronti dei politici? Per il giornalismo economico, Davos era – ed è – un circolo vizioso.

Una propaganda che ha definito un popolo

Per comprendere la Cina e la sua cultura è necessario guardare all’epoca della Rivoluzione Culturale cinese e alle storie e narrazioni costruite per raccontare questo periodo storico che ha segnato in modo indelebile l’intera nazione. In una long read de The Guardian, si racconta dei difficili e turbolenti anni 60/70 della Cina governata da Mao che, dopo il dissenso nato per il fallimento della campagna “Great Leap Forward”, ha distrutto ogni opposizione attraverso la mobilitazione dei giovani per estromettere i dirigenti che lo avevano emarginato. Questa rivoluzione fu una lotta di Mao per rieducare la popolazione e rappresenta il perno tra l’utopismo socialista e la frenesia capitalista, tra l’uniformità e l’individualismo spietato cinese che ancora oggi permea la cultura e le narrazioni del popolo. Questo grande evento è infatti stato un esempio emblematico dell’utilizzo della propaganda nella definizione della storia di un popolo e ancora oggi è parte integrante della Cina. Lo stesso Xi Jinping, oggi il leader più potente dopo Mao, faceva infatti parte di quei giovani mobilitati da Mao per rivoluzionare la società. La propaganda cinese individua dunque nella Rivoluzione Culturale l’esaltazione del comunismo cinese e dell’origine del suo leader, cresciuto e maturato negli anni trascorsi in campagna fino a diventare l’uomo più potente della Cina. L’unione tra la Rivoluzione Culturale cinese e la nascita del mito di Xi Jinping sono strettamente connesse nella cultura sociale cinese poiché “turned rural adversity into a triumph of communist spirit and discipline”. L’utilizzo di questa propaganda incentrata sulla celebrazione del sacrificio per il bene comune della patria ha fondato la società cinese che conosciamo oggi e, di conseguenza, anche il rapporto del governo con il dissenso, mai accettato e sempre soffocato, e l’utilizzo dell’informazione e della manipolazione delle storie per condizionare e manovrare un popolo. Mentre nell’immaginario comune al di fuori della Cina la Rivoluzione culturale ha infatti rappresentato una sorta di guerra civile cinese, l’avvenimento, attraverso una propaganda nel tempo sempre più stringente, assume invece nelle narrazioni locali una sfumatura ben diversa diventando patrimonio culturale nazionale, esaltazione dello spirito comunista cinese.

Il Russiagate è una fake news?

Come riporta il Columbia Journalism Review, è stato recentemente pubblicato uno studio su Nature secondo cui non ci sono prove concrete degli interventi della Russia sui social network (come Twitter) volti a creare disinformazione o a influenzare il risultato delle elezioni presidenziali americane nel 2016. La ricerca, condotta da sei studiosi provenienti da università degli Stati Uniti, Irlanda, Danimarca e Germania, ha raggiunto una serie di conclusioni sorprendenti. Innanzitutto, l’esposizione alla disinformazione russa su Twitter è stata minima e concentrata solo sugli utenti repubblicani. Gli studiosi hanno anche scoperto che tale campagna è stata “eclissata dai contenuti dei media e dei politici nazionali” negli Stati Uniti. In sintesi, non esiste la prova “di una relazione significativa tra l’esposizione alla campagna di influenza russa e i cambiamenti negli atteggiamenti, nella polarizzazione o nel comportamento di voto”. Da questa conclusione, alcuni hanno dedotto che il Russiagate sia stata una delle teorie del complotto più sfrenate degli ultimi anni. Altri hanno osservato che l’influenza dei social media, se esiste, è solo una piccola parte di un problema molto più ampio dell’ecosistema politico e che è fuorviante cercare un unico fattore come causa dell’esito delle elezioni del 2016. Occorre ripercorrere la storia americana degli ultimi dieci anni per comprendere la vittoria di Donald Trump. Nel corso del tempo gli ambienti di destra hanno infatti creato un ecosistema mediatico che attribuisce più valore alla lealtà e alla conferma dei valori e delle narrazioni conservatrici rispetto alla verità. Ciò che si dovrebbe analizzare è come (o se) i contenuti social, soprattutto le fake news, possano influenzare il nostro comportamento, e cosa, in tal caso, le piattaforme potrebbero fare. Forse la disinformazione deve essere considerata meno come qualcosa che viene “inflitto” a un pubblico passivo, e più come un problema di domanda e offerta. In sintesi, i bot russi così come le notizie false sui social network non devono diventare semplici capri espiatori perché incolpare Twitter e Facebook di tutti i mali politici e sociali è riduttivo.

Gli informatori non credono più nei giornalisti

Il calo di fiducia generalizzato che di recente sta subendo il giornalismo è un fenomeno già ampiamente studiato, ma c’è una categoria che spesso non viene analizzata: gli informatori. Come riporta Niemanlab, il recente studio di Karin Assmann dell’Università della Georgia esamina il grande atto di fiducia che di norma gli informatori ripongono nei giornalisti e, più in generale, nei media. Assmann si è chiesta quali fossero i criteri per i quali gli informatori ritenessero affidabili i giornalisti e se ci fosse ormai meno probabilità che affidino loro le informazioni di cui sono a conoscenza. Intervistando 16 informatori americani che hanno operato tra gli anni 70 e il 2010, Assmann ha riscontrato in loro la credenza che i loro interessi e motivazioni coincidessero con quelli del giornalista a cui affidavano informazioni riservate. Speravano in un cambiamento sociale che coincidesse con l’interesse pubblico e pensavano fosse l’ambizione anche dei giornalisti. Giocavano un ruolo fondamentale anche il credere che i giornalisti fossero competenti in materia e che proteggessero la loro identità. Circa la metà di loro, però, oggi vede i media come antagonisti e li descrive come “corrotti, schierati ed egoisti”. In conclusione, Assmann ammette che gli informatori continuano a rivolgersi ai media ma sono consapevoli del fatto che non risponderanno più alle loro aspettative. Bisogna considerare due fattori per analizzare questo fenomeno: da una parte i media statunitensi, e non solo, hanno sempre meno budget per finanziare un giornalismo di qualità, dall’altra spesso i cittadini si affidano a fonti non autorevoli in cui incappano sul web o sui social (vedi Editoriale 112). Ciò ricade sulla qualità del giornalismo e, di conseguenza, sulla fiducia di cui gode.

La corsa al Pirellone sui social

In vista delle elezioni in Lombardia Wired ha analizzato i comportamenti sui social dei suoi principali protagonisti: il governatore Attilio Fontana, l’ex vicepresidente della Regione e assessora al Welfare Letizia Moratti e l’eurodeputato Pierfrancesco Majorino. Il primo può contare su un bacino di followers numeroso (100mila su Instagram, 245mila su Facebook e oltre 22mila su Twitter) e un profilo “rodato” che mantiene pressoché sempre – con qualche licenza con simboli lombardi come polenta e nebbia – un carattere istituzionale. Secondo i dati forniti da Meta, la sua spesa in sponsorizzazioni è pari a 6.128 euro, inferiore ai 9.945 della sua ex vice. Ma, nonostante l’investimento, per il momento Moratti non può contare su un numero di follower paragonabile – 5,5mila su Facebook, 3mila su Instagram e 7,5mila su Twitter – e, in più, si osserva, è evidente che il suo profilo è stato messo in piedi alla svelta. Le prime grafiche sono state introdotte solo verso Natale – la candidatura è stata annunciata a novembre –, la scelta dei colori poteva essere rimodulata e il ricorso a Canva è evidente. A livello di contenuti, poi, non si può parlare di opposizione graffiante: l’accusa più pesante mossa a Fontana vede il governatore accostato al don Abbondio dei Promessi Sposi (l’immaginario lombardo colpisce ancora). Majorino invece occupa l’ultimo posto per spese in sponsorizzazioni (4.452 euro), mentre per numero di followers sta nel mezzo (41mila su Facebook, 11,5mila su Instagram, oltre 31mila su Twitter). A Moratti lo avvicina, però, una scelta cromatica discutibile, un arancio e blu-verde che lo avvicina a Impegno Civico, la forza politica creata dall’ex ministro Di Maio. Infine, una scelta comune a tutti e giudicata positivamente è l’assenza da TikTok.

Tik Tok negli USA: patti chiari, amicizia lunga

Per alcuni politici americani Tik Tok sta diventando sinonimo di totalitarismo e sorveglianza illegale. I timori che la piattaforma possa raccogliere informazioni sui cittadini statunitensi sono sempre più reali in virtù, e non solo, di un recente articolo di Forbes che ha riferito di un piano di sorveglianza mirata verso i giornalisti che avevano criticato i legami dell’azienda con il regime cinese. Molti esperti ritengono che la manipolazione delle informazioni, compresa la censura dei post degli utenti e la diffusione di propaganda e disinformazione, sia la minaccia maggiore che TikTok rappresenti(vediEditoriale 97).Su questo tema, il Washington Post ha pubblicato un articolo dal titolo “Don’t ban TikTok. Make it safer for the country.” (firmato dal board editoriale), nel quale sostiene che un buon compromesso potrebbe essere che un’entità statunitense separata da TikTok diventi responsabile dell’effettiva gestione del sito. L’approccio corretto nei confronti della piattaforma dovrebbe essere lo stesso di tutti gli investimenti stranieri: determinare se una società sia suscettibile di influenze indebite da parte di un nemico, valutare la probabilità che tale suscettibilità si traduca in un particolare danno e decidere se il governo possa ridurre tale probabilità attraverso azioni diverse dal divieto assoluto. Gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare la crescita e la prosperità del commercio internazionale, limitandolo solo in situazioni di evidente necessità.

Social media, una riflessione del WSJ

Quando si parla di social network l’obiettivo principale degli enti regolatori è trovare un modo per separare ciò che li rende uno strumento di valore per le persone e ciò che li caratterizza invece come dannosi e distruttivi. Come spiega il Wall Street Journal, nonostante anni di studio, disegni di legge, scrittura di codici e conferenze nella Silicon Valley e non solo, nessuno ha trovato il modo di farlo. Viene così a configurarsi un problema di trasparenza e di accesso pubblico ai dati che, a causa dei rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, sono sempre più a rischio. Tik Tok, Facebook, Twitter e le altre piattaforme devono essere sollecitate a monitorare le nuove minacce e a rivelarle a ricercatori e regolatori, in modo che l’ecosistema dei social media possa reagire a fake news, distorsioni della realtà, abuso della privacy. Non esiste una regola per rispondere in modo efficace ad un uso improprio e pericoloso dei social media. Quella che però può essere la parola chiave per un uso e una gestione ottimale di queste armi digitali è responsabilità. Ed è proprio su questa parola che si gioca una partita importante. Vero e falso. Realtà e finzione. Così come i social network assumono questa duplice connotazione ed è importante saperli governare, così anche l’introduzione di quelli che possono essere definiti influencer digitali porta con sé dei rischi. Non è un caso che le reazioni alle interazioni con gli utenti umani sono ancora lente, ed è possibile che gli influencer virtuali, in maniera non dissimile da quelli reali, alimentino anche emozioni negative come insoddisfazione e insicurezza e siano veicolo di fake news o, altresì, di esempi positivi (vedi Editoriale 89). Una ambiguità quella dei social network che è bene saper leggere e governare e che trova spazio anche nella politica come testimonia il recente provvedimento firmato dal presidente USA Joe Biden che vieta l’uso della piattaforma di proprietà cinese sui dispositivi del governo federale degli Stati Uniti (vedi Editoriale 113).

*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Per maggiori informazioni: https://www.storywordproject.com/

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