Ex Ilva, al via l’appello del processo per disastro ambientale: in primo grado condanne a più di 20 anni per i Riva

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Nelle motivazioni di condanna di primo grado (leggi) i giudici che condannarono il 31 maggio 2021 – ex proprietari e politici – parlarono di un “girone dantesco” vissuto dalla città di Taranto dove sorge tuttora l’ex Ilva. A distanza di quasi 3 anni parte oggi nell’aula bunker della vecchia sede della Corte d’Appello di Taranto (inizio fissato per le ore 10) il processo d’appello per il disastro ambientale che per la procura è stato causato dall’impianto durante la gestione della famiglia Riva nel periodo 1995-2012.

La sentenza di primo grado – La sentenza di primo grado, emessa il 31 maggio 2021, si chiuse con 26 condanne nei confronti dirigenti della fabbrica, manager e politici. I giudici inflissero 22 anni a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, fu condannato a 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Ai principali fiduciari dell’acciaieria (Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino) considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva furono inflitti 18 anni e 6 mesi di pena, a mentre l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, fu inflitta una pena di 3 anni e 6 mesi. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido condannato a 3 anni. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Per l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato.

Assolti invece il prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva del periodo del periodo più difficile del siderurgico per la quale l’accusa aveva chiesto 17 anni, l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano e due fiduciari, Giuseppe Casartelli e Cesare Corti. Prescrizione per l’ex assessore pugliese e deputato di Si Nicola Fratoianni e l’attuale assessore regionale Donato Pentassuglia. L’allora direttore del siderurgico Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, nel quale c’è anche la statale Invitalia è stato condannato a 4 anni (la richiesta era 17 anni). Pene alte per Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’Alò, condannati a 17 anni ciascuno, come da richiesta dell’accusa. Invece per Marco Andelmi e Angelo Cavallo la pena è stata di 11 anni e 6 mesi, mentre l’accusa ne aveva chiesti 17. L’avvocato dei Riva Francesco Perli fu ondannato a 5 anni e 6 mesi (l’accusa ne aveva chiesti 7). A molti dei condannati la Corte ha inflitto anche l’interdizione perpetua o per 5 anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi. La Corte d’Assise stabilì sia la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici, per una somma di 2,1 miliardi. In tutto sono imputate 39 persone e tre società.

L’appello – La procura generale ha chiesto di rappresentare l’accusa agli stessi pubblici ministeri del primo grado: Remo Epifani, Raffaele Graziano, Mariano Buccoliero e Giovanna Cannarile, ora in servizio a Lecce. La Corte d’Assise d’appello sarà presieduta dal giudice Antonio Del Coco, affiancato dal giudice Ugo Bassi e dalla giuria popolare. Le motivazioni della sentenza furono depositate a 18 mesi di distanza dalla conclusione del processo.

Le motivazioni di primo grado – Per i giudici di primo grado la città pugliese era diventata come un “girone dantesco” mentre l’Ilva era in mano alla famiglia Riva, durante la cui gestione si consumava “razzismo ambientale”. Per spiegare il supplizio della città a causa dell’acciaieria i giudici della Corte d’Assise avevano richiamato un concetto coniato al leader dei diritti civili afroamericani Benjamin Chavis. Gli imprenditori lombardi iniziarono come poco più che rutamat, recuperando i rottami da destinare ai siderurgici nel Bresciano, e finirono per diventare tra i più grandi produttori di acciaio al mondo con modalità “gestionali illegali”, a discapito del territorio. Insomma, a Taranto fu “razzismo ambientale”, quello che si manifesta quando “zone economicamente arretrate” vengono individuate “come luoghi dove realizzare grandi impianti industriali”, senza che “le istituzioni preposte ai controlli” esercitino “efficacemente le proprie prerogative”. E “senza alcuna considerazione” per la popolazione “costretta a vivere in un ambiente gravemente compromesso” ed “esposta a maggiori rischi per la salute”. In altri termini, tra il 1995 e il 2012, l’impianto era un “deposito di esplosivi gestito dai nostri imputati come fochisti”.

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