I “peti delle mucche” e la banalizzazione della crisi climatica

1 month ago 28

Di Antonio Scalari

C’è una battuta che sta diventando sempre più popolare nella discussione pubblica sul cambiamento climatico: quella su “i peti delle mucche”. La battuta circola sui social media e, di recente, durante una trasmissione televisiva, l’ha fatta sua anche Nicola Procaccini, parlamentare europeo e responsabile per i temi dell’ambiente e dell’energia di Fratelli d’Italia, il partito della Presidente del consiglio Giorgia Meloni. Procaccini è anche uno dei teorici della “ecologia conservatrice”, una specie di pensiero verde di destra che, una volta depurato dalla retorica pseudoromantica, appare come una summa di tesi e narrazioni negazioniste.

Un problema più serio di quello che sembra
Il riferimento di queste battute dovrebbe essere al metano, il gas che i bovini producono attraverso i loro processi digestivi. Come noto, il metano è un gas serra che su una scala temporale di un secolo ha un potenziale di riscaldamento globale 28 volte più grande di quello della CO2 e di 80 volte maggiore nell’arco di 20 anni. È dunque un gas serra molto potente. Ma mentre buona parte della CO2 può rimanere in atmosfera per secoli, influenzando il clima della Terra per un periodo lunghissimo, il metano ha una vita molto più breve. Perciò, se nel lungo termine è più importante la CO2, nel breve lo è anche il metano. Per impedire che la temperatura della Terra aumenti è urgente abbattere anche le emissioni di questo gas. Il settore agricolo-zootecnico è la sua maggiore sorgente seguita dalle emissioni fuggitive dell’industria petrolifera e dai rifiuti. I “peti delle mucche”, ci dice l’ultimo rapporto dell’IPCC, sono responsabili di circa il 5 per cento delle emissioni globali di CO2-equivalenti (un’unità di misura che incorpora tutti i gas serra considerato il loro potenziale di riscaldamento globale). È tanto? È poco? È.

E qui bisogna introdurre un elemento guastafeste, che rovinerà per sempre la battuta sui peti delle mucche. Non sono infatti i peti delle mucche, a produrre metano, ma per lo più i loro “rutti”. È infatti nel rumine, una delle cavità dello stomaco delle mucche, che avvengono i processi chimici fermentativi che producono metano. A produrli sono microrganismi metanogeni che appartengono a un dominio biologico unico, quello degli Archaea (o archeobatteri). Hanno caratteristiche che li differenziano sia dai batteri che dagli eucarioti, le cellule di cui siamo fatti noi (in realtà noi siamo “fatti” anche di molti microrganismi che, come nel caso delle mucche, noi ospitiamo). Gli Archaea vivono in ambienti estremi come le sorgenti idrotermali nelle profondità degli oceani o i terreni ipersalini. Carl Woese, uno dei più grandi biologi del ‘900, è lo scienziato che li ha descritti per la prima volta nel 1977. Per “colpa” loro una mucca rilascia mediamente nell’aria circa 160 chilogrammi di metano all’anno. Lo stomaco delle mucche non è l’unico ambiente in cui microrganismi metanogeni possono contribuire al riscaldamento globale. Si trovano infatti anche nel permafrost, il suolo ghiacciato delle regioni artiche. La fusione del ghiaccio in questi suoli, causata dall’aumento della temperatura, potrebbe innescare l’attività metabolica di questi microorganismi e portare al rilascio di ingenti quantità di metano nell’atmosfera. La produzione di metano negli allevamenti bovini è un problema noto all’interno del settore zootecnico, tanto che sono state elaborate alcune possibili soluzioni: la selezione genetica di varietà meno propense a produrre metano; l’impiego di alcune alghe nella loro alimentazione; l’aggiunta di particolari sostanze nei mangimi, come il 3-nitroossipropanolo (3-NOP). Si tratta di una molecola che funziona come un inibitore dell’enzima che nei microorganismi presenti nel rumine catalizza le reazioni che producono il metano. Alcuni studi hanno dimostrato che nelle mucche il 3-NOP può ridurre del 30 per cento la produzione di metano. Nel 2022 il suo utilizzo è stato autorizzato nell’Unione europea.

La banalizzazione della discussione sul clima
L’effetto, il più delle volte voluto, delle battute sui “peti delle mucche” è naturalmente quello di far ridere. Non solo di qualcosa ma anche di qualcuno: un divertito e compiaciuto compatimento per le persone contro cui queste freddure vengono indirizzate, trattate come ingenue e fuori dal mondo. Non penserete che il pianeta può essere distrutto dai peti delle mucche?, non penserete che inquinano di più le mucche di questo o quello?, sono le domande retoriche che accompagnano le battute.

Nessuna persona onesta e informata pensa che il tema sia “salvare il pianeta” dai peti o dai rutti delle mucche, perché il tema non è proprio “salvare il pianeta”, semmai impedire che il clima si destabilizzi al punto da creare seri guai per noi umani e preservare ecosistemi che per noi hanno un valore non solo ambientale, ma anche culturale, scientifico e paesaggistico.
Ma più che esigere una risposta argomentata, le battute e le domande retoriche servono a un altro scopo: far deragliare i dibattiti. Se il tuo interlocutore ti fa passare per uno che pensa che “il pianeta può essere distrutto dai “peti della mucche”, da quel punto in poi la conversazione, invece di rimanere focalizzata sui temi reali e sulla loro razionale discussione, verrà interrotta e dirottata dalla necessità di dimostrare che no, nessuno pensa una tale fesseria.

Tutto ciò porta, inevitabilmente, a banalizzare seri temi scientifici e a trasformarli in diatribe da talk show. L’intera questione climatica e ambientale ne esce ridicolizzata, comprese le soluzioni per affrontarla. Se non sono le mucche, sono le energie rinnovabili; se non sono le energie rinnovabili sono le auto elettriche. Lo scopo ultimo di battute come quelle sui “peti delle mucche” è perciò quello di rovinare la discussione sul cambiamento climatico, infarcendola di slogan e disinformazione, e di trascinarla fino al punto in cui i problemi e le soluzioni possono, serenamente, scomparire.

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