Il teatro sostenibile, un Piccolo grande progetto

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Si chiama ‘Stages’, che sta per Sustainable Theatre Alliance for a Green Environmental Shift.
E’ un progetto che hanno avviato 14 teatri europei (ma fra loro anche una realtà di Taiwan). In rappresentanza dell’Italia, il Piccolo Teatro di Milano.
Ognuno di questi partner studia come affrontare il tema della sostenibilità al punto di vista teatrale. Senza però chiudersi dentro il perimetro del sipario e del palcoscenico. Perché in tre anni di workshop e forum gli artisti incontreranno scienziati e accademici. In un confronto di saperi che alla fine arricchirà non solo chi il teatro lo fa ma anche chi lo guarda.

Workshop al Piccolo Teatro (foto © Masiar Pasquali)

Il progetto è appena partito. A fine dicembre si sono svolti i primi workshop. Il percorso prevede un primo anno dedicato all’ideazione (in aprile un incontro pubblico ne racconterà i risultati), un secondo alla progettazione e un terzo per la realizzazione di un progetto individuato dai gruppi di lavoro.

La messa a Terra

A Milano, nella sede del Piccolo Teatro, gli artisti che partecipano al workshop hanno scelto come tema di studio ‘Terra: con i piedi (e le mani) per terra’.
Coordina il gruppo Davide Carnevali, drammaturgo e artista associato del Piccolo, che spiega la ragione per cui – fra i 4 elementi proposti – ha scelto questo. “Terra è il pianeta in cui viviamo, ed è quindi la questione legata all’antropocene, a come noi esseri umani riusciamo qui a convivere. Ma ci sono anche altri significati. C’è la terra come superficie su cui camminiamo, dove si nasconde un sotto, che è una cartina di tornasole dello stato del pianeta”.

Davide Carnevali (foto © Masiar Pasquali)

“Il difetto del teatro – prosegue Carnevali – è che spesso si ferma alla superficie delle cose; invece c’è bisogno di scavare, riscoprire da dove veniamo, per poi ricostruire il rapporto con il pubblico e la società. C’è infine la terra intesa come suolo, spazio pubblico e spazio privato, e quindi il ruolo di un teatro pubblico come il Piccolo e il rapporto con la cittadinanza. Da qui inizia il dibattito”.

Fra teatro e scienza

Il dibattito si svolge nei locali del Piccolo Teatro intorno a un lungo tavolo ovale.
A fianco dei teatranti (con Carnevali, Lisa Ferlazzo Natoli e Maddalena Parise del collettivo lacasadargilla, e il coreografo e danzatore Mattia Cason), diversi professori del Politecnico di Milano, specializzati in Geochimica e vulcanologia, in Tecnica e pianificazione urbanistica, in Architettura del paesaggio.
Si confrontano i punti di riferimento, le citazioni dei ‘maestri’ spesso non sono condivise (nel senso che gli uni non conoscono quelli degli altri: solo Aristotele è nome in comune). Ma la volontà non è fare sfoggio di sapere. L’obiettivo è riuscire a tirar fuori qualcosa che sia utile a tutti. Intendendo per tutti uomini e donne del pianeta.

Innesto Postumano, nel chiostro del Piccolo Teatro (foto © Masiar Pasquali)

Alcuni dati sono particolarmente a effetto. Come quando gli scienziati spiegano che 10 centimetri di suolo si generano in 10mila anni. E che un cucchiaino di terra contiene 9 miliardi di forme di vita. “Un ditale riempito di suolo ha maggiore biodiversità del plancton”, spiega Francesca Neonato, fondatrice di Pn – Studio progetto natura.

Ma anche gli scienziati non sempre affrontano la sostenibilità dallo stesso punto di vista.
Il professor Paolo Pileri spiega che tutti questi alberi piantati in città in realtà sono una ‘bufala’: sotto il suolo, le loro radici sono imbracate in vasi e non possono così comunicare con quelle delle piante vicine. Mettere un bavaglio (o un vaso) alla comunicazione significa sempre porre a rischio il futuro della specie.
Che cosa fare, allora? Il professor Matteo Umberto Poli pone un’altra questione di sostenibilità, quella sociale: dobbiamo smettere di costruire? Qual è lo spazio giusto per la popolazione?

Lasciare un segno

L’obiettivo d’altra parte, ricorda Carnevali, è “scambiare saperi fra artisti, accademici, personalità del mondo scientifico, per capire che cosa può portare il teatro alla scienza e viceversa”.
In questa prospettiva, Stages non intende costruire uno spettacolo, ma dar vita a sapere e relazioni. “Qualcosa che lasci un segno, non necessariamente materiale: può essere un progetto di comunicazione, un modello di interazione da applicare a produzioni di spettacoli o progetti di legge, o a strategie di comunicazione in cui noi ci poniamo come tramiti perché la proposta scientifica possa entrare in sintonia con il linguaggio della gente comune”.

‘Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinazione’, lacasadargilla

Interviene Lisa Ferlazzo Natoli, che l’anno scorso ha presentato al Piccolo ‘Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione’, basato su una serie di criteri di sostenibilità. Lisa definisce i teatranti “portatori sani di parole”, per cucire un discorso ecologico e “un ragionamento concreto per la cittadinanza”.
Un ruolo di comunicatori perché (Carnevali) “comunicare e far fare un’esperienza allo spettatore, che diventa partecipatore: è questo che vogliamo fare”.

Il teatro del corpo

Comunicare non è usare solo le parole. “Io mi occupo di danza, della possibilità del corpo di indagare la realtà al di là delle identità individuali o sociali imposte. Incontrare – grazie a questo progetto – persone con saperi diversi ha evidenziato la necessità per ognuno di noi di uscire dai propri ruoli, cercando di aprire una comunicazione comune. Il corpo è la modalità per uscire dai propri ruoli”, dice Mattia Cason.

Facciamo rete

Non si tratta di discorsi puramente filosofici e teoretici. Sono prospettive molto concrete, quelle cui il gruppo vuole lavorare.§
Intanto, un obiettivo è – come dice Maddalena Parise – “creare delle reti, un ecosistema di pensiero e azione, perché da soli non ce la si fa”. L’ecosistema per definizione non è pensiero unico, ed è un discorso politico: “Dobbiamo essere consapevoli che ciò che rappresentiamo è parziale, il teatro è una palestra di educazione civica”, aggiunge Carnevali.

INNESTO POSTUMANO foto © Masiar Pasquali

Ferlazzo Natoli riporta il discorso alle origini: “La parola sostenibilità significa tante cose, e a un certo punto il suo campo semantico si è opacizzato: se non lo ridefiniamo in modo nitido, diventa il piede di porco per continuare a sfruttare la Terra. Si celebra per esempio tanto l’economia circolare, ma questo significa per esempio trasformare i miei jeans in una borsa, e per farlo si sprecano energie, macchine, forza lavoro, risorse. Invece se i miei jeans li regalo al negozietto che li rivende, non produco altro sfruttamento della Terra: questa è l’economia del riciclo, più faticosa magari ma più sostenibile”.

Come trasformare tutto questo in teatro? Tenuto conto che – spiega Parise – “gli scienziati ci dicono che non riescono più a far capire la situazione, l’urgenza di intervenire” per salvare la Terra, bisogna riuscire a comunicare. In questo caso, comunicare attraverso chi fa appunto teatro.
Cercando altre formule perché, osserva giustamente Ferlazzo Natoli, “la comunicazione spesso diventa semplificazione, gli spazi per questi argomenti sono limitati; noi vogliamo renderli splendenti”.

Uscire dal teatro

Intanto, questa generazione (che generazione poi non è: vanno dai 50 ai 23 anni) vede come importante l’uscita del teatro dal rapporto frontale e pure dagli spazi fisici della sala, anche per intercettare un pubblico giovane che in parte si è perso per strada.
Spiega Cason: “Il nostro è un settore un po’ a comparti stagni. Ma ci sono figure che provano ad ampliare l’orizzonte della creatività, a vivere il teatro come strumento per parlare del mondo. È una uscita dei ruoli che si fa con l’attitudine alla curiosità rispetto a quello che viene da fuori, non limitandosi a ripetere ‘Io ho fatto questo, quest’altro’. La figura del contropiede è fondamentale”.

Ai tempi del digitale

Uscire dai compartimenti stagni significa anche che il teatro, linguaggio analogico per definizione, deve fare i conti con il linguaggio digitale.
”Le persone – ammette Carnevali – hanno una percezione estetica completamente modificata dalle nuove tecnologie. Io mi occupo di spettacoli per le scuole e faccio i conti con una percezione del ritmo, dell’immagine basati su YouTube o i social, che lavorano su una soglia di attenzione completamente differente da quella teatrale, con tutt’altra rapidità, linguaggio comunicativo, interazione fra parola e immagine. Se il teatro vuole recuperare il dialogo con il pubblico dobbiamo trovare quel punto medio fra la possibilità di comunicazione e l’invito al cambio di paradigma di pensiero. Bisogna inglobare una riflessione sul senso delle tecnologie, come durante il Covid, quando è stato sperimentato online che cosa significava l’esperienza di un’assenza del corpo”.

Se ne riparla ad aprile

Dopo gli incontri e i confronti di dicembre, i risultati di questo primo anno di lavoro di Stages saranno raccontati ad aprile, in un incontro pubblico.

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