[INTERNAZIONALISMO] Nemici giurati, falsi amici e veri alleati della causa palestinese

4 months ago 26

Nemici giurati, falsi amici, e veri alleati della causa palestinese,

oggi e in prospettiva 

– Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR)

Tocca a noi internazionalisti militanti, nemici irriducibili di ogni potere borghese, dire un’amara verità: se il genocidio di palestinesi in corso a Gaza potrà andare avanti per mesi fino a rendere totalmente inabitabile quel territorio per i suoi abitanti, come ha programmato il boia Netanyahu, questo potrà succedere solo ed esclusivamente per le armi e i dollari amerikani, il petrolio azero, arabo, brasiliano, russo, la complicità degli stati e dei luridi mass media italiani ed europei, ed infine per il cinismo degli altri falsi amici della causa palestinese (Turchia, Cina, Iran) che stanno alla finestra a guardare impassibili l’orrendo “spettacolo”, studiando come poter trarre profitto dal sangue versato dai palestinesi.

Con tutte le differenziazioni e le contraddizioni del caso, contro i palestinesi, il popolo più proletarizzato e irriducibile del mondo, si è venuta a saldare un’alleanza di fatto delle più grandi potenze del capitale.

Ad aiutare Israele a portare avanti la sua azione genocida, non c’è solo l’“Occidente collettivo”, nemico giurato della libertà delle masse palestinesi, con gli Stati Uniti del capo-killer Biden in testa. C’è la banda dei Brics, vecchi e nuovi. C’è la Russia, storica grande amica di Israele e soprattutto della sua destra ultra-sionista, disposta a prendere verbalmente le distanze dal massacro solo per darne la colpa a Washington, e proteggere con questo escamotage i gangster al potere in Israele. C’è il Brasile, grande fornitore di petrolio a Tel Aviv. C’è l’India che, a mattanza in corso, ha concluso un accordo di fornitura di manodopera a Israele per sostituire decine di migliaia di proletari palestinesi da licenziare e da sprofondare nella disoccupazione e nella povertà. Ci sono tutti i paesi arabi che – al di là delle frasi di circostanza – non hanno mosso un solo dito per bloccare, e neppure ridurre, le forniture di petrolio essenziali per lo sterminio.

Il più amico degli stati che si professano “amici” dei palestinesi, l’Iran, ha voluto assicurare ufficialmente il consesso degli assassini in questo modo: “l’Ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, ha detto ad Haniyeh [uno dei massimi esponenti di Hamas – n.] che l’Iran, da lungo tempo sostenitore di Hamas, continuerà a dare appoggio politico, ma non interverrà direttamente nel conflitto”. Dopo una simile solenne dichiarazione diramata a tutto il mondo dall’agenzia Reuters il 15 novembre scorso, i successivi ammonimenti di Teheran sul fatto che Israele sta superando questa o quella “linea rossa” non sono altro che gargarismi. Del resto l’Iran aveva sconsigliato Hamas dal prendere qualsiasi iniziativa offensiva nei confronti del potere coloniale occupante, in attesa di un suo logoramento interno – il che può essere comprensibile per uno stato indipendente, ma si è rivelato insopportabile per una popolazione senza stato come quella di Gaza, soffocata nelle più elementari esigenze vitali da quindici lunghissimi anni di assedio totale e di massacri intermittenti, per non chiamare in causa i precedenti sessanta di oppressione. Sulla Cina, basterà osservare questo: in un paese di 1,4 miliardi di abitanti non si segnala una, una sola!, manifestazione di solidarietà ai palestinesi. In Russia, invece, l’unica manifestazione del tutto spontanea di solidarietà, che si è verificata in un aeroporto del Daghestan, è stata attaccata e dispersa dalla polizia. A proposito di amici della causa palestinese…

Se così è – qualcuno può dimostrare il contrario? – allora bisogna prendere atto che nella sua eroica difesa dalla macchina dello sterminio sionista il popolo palestinese ha come suoi soli, autentici alleati le decine di milioni di dimostranti che in questi due mesi hanno riempito le piazze di tutto il mondo, a cominciare dal mondo arabo, per gridare la propria rabbia contro i macellai sionisti e i loro protettori e complici, e per testimoniare, in certi casi giurare, che ci sentiamo tutti palestinesi, e lo saremo fino alla fine di questa guerra di liberazione, insieme inseparabilmente nazionale e sociale.

Perché, e per chi, è amara questa verità?

Perché rileva che lo stato sionista non trova grandi ostacoli nell’azione degli altri stati per cui la sua macchina bellica può andare avanti nel diffondere morte e distruzione. Svela al tempo stesso quanto sono mal riposte le persistenti illusioni di massa sul possibile ruolo “progressivo”, o addirittura “anti-imperialista”, delle grandi e meno grandi potenze capitalistiche anti-occidentali. No, niente del genere! Cina, Russia, Iran non hanno il minimo interesse alla vittoria della causa palestinese sullo stato sionista perché essa provocherebbe un terremoto di tutto l’attuale ordine politico e sociale medio-orientale, che sono interessate a modificare a proprio vantaggio, ma non certo a terremotare. Da tempo, ormai, la Palestina ha cessato di essere solo la patria dei palestinesi per diventare la patria degli oppressi di tutto il mondo. E come si è visto in questi mesi, la tenuta, la resistenza dei palestinesi davanti a un’aggressione di una violenza senza precedenti, sarebbe salutata da tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo dotati di un minimo di coscienza di classe come una propria vittoria, un passo verso la propria liberazione.

A sua volta, anche Israele ha cessato da tempo di apparire il sicuro rifugio degli ebrei perseguitati per diventare l’emblema universale dello stato di polizia, capace della repressione e del controllo più spietati e tecnologici insieme della classe sfruttatrice dominante sui dominati. Il suo principale articolo di esportazione è, non a caso, la “sicurezza”, e un collaudato metodo di governo in grado di fondere in un tutto unico democrazia e nazi-fascismo. In una fase storica di inesorabile polarizzazione sociale, quale degli stati borghesi può rinunciare al perfezionamento dei metodi con cui sorvegliare, soggiogare e, quando opportuno, punire i “propri” proletari? Ecco perché il macellaio Netanyahu, democraticamente eletto, è oggi l’eroe dei governanti borghesi di tutto il mondo. In fondo, nel contesto dello scontro mondiale che si avvicina, l’ultima parola di tutti gli stati borghesi sarà il terrorismo aperto – non è una ricetta per il momento presente, ma intanto si osserva, si studia e si recita la parte: “d’accordo, annientate Hamas, ma proteggete i civili”, facendo finta di non sapere che l’obiettivo sionista è esattamente quello di terrorizzare e colpire la popolazione palestinese. Per tutti i governanti del mondo, perciò, l’azione genocida di Israele a Gaza, e il modo in cui si è cercato di legittimarla, è un “interessante” esperimento per i tempi che verranno.

Naturalmente, per gli Stati Uniti, l’Italia di Meloni e Mattarella, l’Unione europea questo genocidio è anche qualcosa di più. Di ancor più vitale per l’immediato presente, non solo per il futuro: deve riaffermare, costi quel che costi, il loro supremo, divino, diritto a dominare e saccheggiare il mondo intero, non solo la Palestina, in nome della supremazia della civiltà occidentale e della razza bianca di fronte all’emergere di nuovi pericolosissimi concorrenti. Guai a chi pretende di mettere in discussione tale diritto! Perso ormai il primo round sul fronte ucraino, l’imperialismo yankee ed europeo – profittando del relativo “isolamento” dei palestinesi – vuole stravincere il secondo. La montagna di cadaveri di bambini, donne, anziani di Gaza e militanti della causa palestinese deve essere il piedistallo dal quale lanciare un monito agli oppressi di tutto il mondo. Se mettete in discussione il nostro potere, questa è la sorte che vi aspetta! Il genocidio di Gaza è, in fondo, l’ultima parola dell’imperialismo occidentale in irreversibile crisi di egemonia.

D’altra parte l’eccitazione che la distruzione di Gaza e l’orgia di sangue palestinese versato sta producendo in larga parte della società israeliana dimostra anche il grado di putrefazione a cui il sionismo e il suo figlio legittimo, l’ultra-sionismo, hanno condotto questa società, ed in essa, inutile girarci intorno, anche i lavoratori nella loro stragrande maggioranza. Tanti ebrei anti-sionisti nel mondo, che non hanno mai visto in Israele la propria patria, soffrono nel vedere l’auto-proclamato “stato degli ebrei” ricorrere ai metodi e alle simbologie proprie del nazismo. Ma questo è. Finalmente è emerso alla luce del sole – seppure del mortifero “sole” prodotto da bombardamenti terroristici – che la creazione di uno stato coloniale, razzista, ultra-militarizzato fin dalla sua nascita è stata una pretesa, falsissima, soluzione alla tragedia storica della persecuzione e discriminazione subita in Europa da ampi settori della popolazione ebraica (altri erano senza dubbio, invece, dei privilegiati).

Come si vede da oltre un secolo, la Palestina non era “una terra senza popolo” da destinare “a un popolo senza terra”. Era ed è una terra amata, amatissima, dal popolo autoctono che l’abitava e dai suoi discendenti, divenuti in grandissima parte, da contadini poveri e beduini che erano, proletari senza riserve, dispersi per tutto il Medio oriente e oltre. Una terra così amata dalle masse oppresse palestinesi che nessuna mattanza, nessun terrorismo sionista, nessuna loro demonizzazione, nessun esodo, nessuna occasione mancata, nessuna sconfitta parziale, nessun tradimento, nessuna pugnalata di mani amiche, nessuna svendita (pensiamo ad Oslo), nessuna corruzione dei suoi veri o presunti rappresentanti, nessuna lusinga ingannatrice, sono riusciti a piegare e normalizzare. Anzi: con il tempo la causa palestinese è diventata sempre più la causa di tutti/e coloro che odiano l’oppressione delle nazionalità, il colonialismo vecchio e nuovo, l’apartheid, il cieco fanatismo religioso, il razzismo, il pervasivo militarismo con i suoi costi materiali ipertrofici e la sua portata di brutalità e violenza anche nei rapporti personali (in Israele c’è una spaventosa diffusione della prostituzione, anche minorile) – i tratti essenziali dell’odierno stato di Israele.

Da semplice causa nazionale, quale era al suo sorgere, la causa della liberazione delle masse oppresse palestinesi si è colorata sempre più di significati sociali,di date classisociali. Perché se è vero che si è creato in questi decenni uno strato di affaristi e di burocrati palestinesi benestanti, privilegiati, collusi con Israele, la grande massa proletaria e semi-proletaria dei palestinesi di Gaza, della Cisgiordania, della diaspora dei campi profughi, dei palestinesi cittadini di serie B di Israele, vive in condizioni di atroce povertà o almeno di deprivazione, e deve affrontare soprusi e tormenti di ogni tipo. È da questa massa, non certo da poteri stranieri “amici”, che è rinata di continuo – quattro sollevazioni di massa dal dicembre 1987! – la necessità vitale della lotta e della resistenza dei palestinesi in forme sempre più radicali, perché sempre più estrema, inumana, intollerabile è l’oppressione sionista. L’attacco del 7 ottobre viene da questa condizione, non è stato deciso a Teheran, Teheran non comanda a bacchetta Hamas, che a sua volta non ha con i palestinesi il rapporto che il burattinaio ha con i suoi burattini!

Seguendo alla lettera le prescrizioni sioniste, gl’infami mass media italiani ed europei mettono al bando la parola Palestina, sostituendola con Medio Oriente. Cancellando la parola, si illudono di poter cancellare la realtà della Palestina. Senonché mai questa parola, ormai vietata nei “liberi” mass media europei, è stata altrettanto gridata, cara, sacra ai quattro angoli del pianeta. A cominciare da quelle masse oppresse, diseredate, che insieme a una parte della gioventù istruita senza lavoro e senza futuro riempirono le piazze di tanti paesi arabi nelle due grandi ondate di sollevazioni del 2011-2012 e del 2018-2020, facendo irruzione sulla scena politica del mondo. Solo dei poveri fessi potevano scambiarle per “rivoluzioni colorate”. Esse hanno invece osato gridare ai quattro venti “il popolo vuole abbattere il regime”, i regimi borghesi arabi infeudati all’Occidente, che li hanno ripagati di abbondanti razioni di piombo e di carcere (come del resto il filo-russo Assad, un primatista nell’organizzare il massacro del suo popolo). Le sollevazioni popolari dello scorso decennio hanno infuso coraggio anche alle masse della Palestina che giustamente sognano di ridurre in polvere un giorno lo stato sionista che le martirizza da 75 anni. A loro volta, le masse palestinesi e i loro militanti ribelli, siano essi motivati da ragioni religiose o meno, le hanno ripagate, le stanno ripagando con un’ennesima prova di fierezza e di dignità collettive.

Nonostante il loro provvisorio scacco, questi avvenimenti hanno messo in luce che non esiste solo un mondo arabo, ne esistono due sempre più distanti ed estranei: il campo delle classi sfruttatrici, in vario modo legate all’ordine mondiale capitalistico – targato Washington o Pechino cosa cambia? – e il campo delle classi sfruttate. E poiché la spaccatura in profondità di tutte le società, anche di quelle più ricche, come gli Stati Uniti e l’Europa, è un dato universale, ecco che si sono create le condizioni affinché il messaggio di lotta delle masse oppresse e sfruttate della Palestina e del mondo arabo arrivi molto lontano.

Ed ecco perché la resistenza palestinese ha acquistato con gli anni, e specie oggi,unaforza simbolica eccezionale. La Palestina èovunque. Ovunque sia assente la libertà per la presenza dei meccanismi di sfruttamento e di dominio che stanno togliendo il respiro alla classe lavoratrice di tutte le razze, le nazionalità, le religioni o le non-religioni, e alla stessa natura. Ovunque si lotti senza paura per liberarsi da questi meccanismi universali propri del capitalismo di ogni “colore” e di ogni latitudine – anche tra i giovani ecologisti alla Greta, etichettati da certi sapienti senza cervello come soldati prezzolati della falsissima “conversione verde” del capitale globale.

Lo sappiamo: la nostra tesi che gli unici veri alleati della causa palestinese sono gli sfruttati e gli oppressi di tutto il mondo, che l’unica prospettiva di liberazione della Palestina è quella di una gigantesca sollevazione degli sfruttati di tutta l’area che abbatta sia lo stato sionista che i regimi arabi suoi complici per costituire un’unica federazione di paesi liberi dalla dominazione imperialista e dal capitalismo, può sembrare un sogno irrealistico da idealisti. Ma una tornata di scontri dopo l’altra, l’esperienza concreta sta dimostrando invece che irrealistica, totalmente irrealistica, è l’illusione di poter ricevere un aiuto dagli stati arabi o dalle grandi potenze anti-occidentali, per non parlare dell’ONU, della cosiddetta “comunità internazionale”, o del rispetto del “diritto internazionale”, di cui lo stato di Israele si è sempre fatta strame.

Cosa ne è della tesi dei “due popoli, due stati” riesumata da Blinken e altri bari? Una formula totalmente vuota, ingannevole perché da una parte c’è lo stato caratterizzato da un irrefrenabile espansionismo, arrivato ad occupare più dell’85% del territorio della Palestina storica, e dall’altra un pulviscolo di minuscoli bantustan e homelands totalmente accerchiati, tra loro separati, dipendenti, senza prospettiva. E ha forse un minimo di realismo l’ipotesi, avanzata da altri, che la fine dell’occupazione coloniale possa darsi con la “democratizzazione” di Israele, un Israele senza Netanyahu magari, guidato da governanti più moderati? Realismo zero, perché le basi costitutive, le fondamenta di Israele sono dall’inizio colonialiste, e volte alla pulizia etnica e alla costruzione di un regime di apartheid attuate con ogni forma di violenza terroristica – e nel fissarle come tali, in teoria e in pratica, ebbe parte speciale proprio il sionismo “laburista” alla Ben Gurion. Ogni ipotesi di de-colonizzazione dello stato di Israele è perciò un totale bluff. E se è vero che oggi in quello stato domina l’ultrasionismo, è solo perché, davanti a molteplici fattori di crisi interni ed internazionali, il vecchio sionismo si è tolto la maschera e si è radicalizzato.

La formula della Palestina libera “from the river to the sea” significa, per noi, libera dal colonialismo e dallo stato colonialista di Israele che lì opprime brutalmente il popolo palestinese e per mantenere in piedi questa oppressione, deve portare avanti un processo di fascistizzazione delle proprie strutture anche nei confronti della popolazione ebrea (non si gridava nelle piazze fino a pochi mesi fa contro il fascismo in ascesa di Netanyahu & Co.?). Non significa certo buttare a mare gli ebrei, bensì, come già prospettato dalle più avanzate organizzazioni palestinesi degli anni ‘70, fondare uno stato “in cui israeliani ed arabi godranno degli stessi diritti, uno stato in cui non ci sarà alcuna forma di oppressione, uno stato infine in cui il potere, tutto il potere, sarà esercitato dai soviet degli operai e dei contadini”, integrato in una più ampia federazione araba di popoli liberi dall’imperialismo e dal capitalismo.

Questa prospettiva è, in fondo, la sola prospettiva realistica, anche se per farla diventare realtà occorrerà uno sforzo enorme di lotta e di organizzazione di classe alla scala internazionale. Del resto, un secolo di lotta inesauribile ha provato che non c’è una soluzione puramente nazionale della questione palestinese. Come non c’è stata una soluzione araba né nel 1948, né dopo. Neanche con il loro illimitato eroismo le masse palestinesi sono state in grado di svincolarsi da sole dall’oppressione coloniale sionista, che gode nel mondo del capitale di mille protezioni e altrettante complicità – perché ognuno dei più potenti stati capitalistici del mondo ha, al proprio interno o all’interno della sua area di influenza, forme di oppressione nazionale e razziale da difendere, ha la sua colonia di “palestinesi” da tenere a bada. Per questo la lotta delle masse oppresse palestinesi deve diventare sempre più la lotta di tutti gli sfruttati del mondo. Ed è esattamente quello che sta avvenendo in questi mesi, come risultato per lo più spontaneo di processi economico-sociali profondi di lunga durata.

Dalla prospettiva torniamo all’oggi. L’enorme ondata di manifestazioni di solidarietà con la Palestina è stata un evento di eccezionale importanza politica. Guai a minimizzarne il significato. Ma davanti all’ampiezza e potenza della “santa alleanza” anti-palestinese, non è finora riuscita a fermare il genocidio di Gaza, il tentativo di spostare da Gaza verso il deserto o verso l’Egitto i suoi abitanti, e lo stillicidio di omicidi mirati e a sangue freddo di esercito e coloni sanguinari in Cisgiordania. Ha “semplicemente” delegittimato del tutto le ragioni dello stato di Israele agli occhi di sterminate masse di lavoratori e di giovani, mostrandolo per quello che è: un orribile mostro creato dal colonialismo, che non può in alcun modo essere trasformato e moderato, può e deve solo essere abbattuto. Non si dica che è poco. Le piazze del mondo non si sono affatto riempite invano! Ma per avvicinare ulteriormente la liberazione nazionale e sociale degli oppressi palestinesi serve rilanciare e radicalizzare sul piano politico le mobilitazioni di questi due mesi – perchéè il solo modo per sostenere la resistenza, indebolire Israele e profittare delle contraddizioni inter-imperialistiche. Basta con gli appelli al ravvedimento dei “nostri” governi! Sarà solo la paura di danni profondi alla propria economia e alla propria legittimità a costringere i poteri costituiti, a cominciare da quelli del mondo arabo, ad allentare la loro totale o parziale complicità con Israele, così da mettere i bastoni tra le ruote al criminale progetto del governo Netanyahu. La richiesta di una totale, immediata cessazione delle forniture di petrolio arabo e dei paesi Brics a Israele deve diventare una parola d’ordine-chiave. Qui in Italia e in Europa deve andare avanti la prassi di lotta inaugurata con i blocchi, per ora limitati, dei porti di Genova e Salerno, sviluppata con l’importante sciopero indetto nella logistica dal SI Cobas il 17 novembre scorso, con la protesta di centinaia di attivisti sindacali in Inghilterra contro 4 fabbriche di componenti dei bombardieri israeliani, davanti ad imprese di proprietà israeliana come a Modena, o contro gli accordi di collaborazione fra imprese italiane e israeliane come a Genova, con l’occupazione di università e scuole per costringerle a recidere i legami con le istituzioni sioniste, etc.

Quanto infine ai “proletari israeliani” a cui si riferiscono con il massimo dell’enfasi gli “internazionalisti” da divani&divani, essi daranno prova di esistere per davvero come proletari solo separandosi dai propri governanti – quella prova che finora non hanno dato, e dalla quale dipenderà la salvezza del loro onore. Da tempo la società israeliana ha cominciato a dividersi apertamente lungo linee di classe. Una dozzina di anni fa ci furono dimostrazioni di massa di lavoratori salariati contro l’austerità. Del resto, per quanti sostegni si ricevano dall’estero, non è possibile il militarismo più sfrenato, l’illimitato sviluppo dell’industria della morte, senza la corrispondente compressione delle spese necessarie per la protezione della vita sociale. Nei mesi scorsi ci sono state proteste di piazza di dimensioni ancora maggiori contro il processo di accentramento dei poteri e di vera e propria fascistizzazione. Ma la denuncia dell’oppressione dei palestinesi è rimasta finora riservata ad una sparuta minoranza di singoli coraggiosi, senza mai vedere una presenza organizzata di gruppi di proletari. Davvero è il caso di dire loro: qui ed ora dovrete dimostrare se siete uomini e donne liberi o schiavi associati agli schiavisti!

La fine della subordinazione dei “proletari israeliani” al sionismo non sarà né un processo semplice né breve, prodotto da un’opera di convincimento ideologico o morale. Il colonialismo di Israele, i massicci aiuti finanziari dall’estero per sostenere il suo ruolo di massimo garante dell’ordine imperialistico nell’area, hanno permesso vantaggi e privilegi per gli stessi proletari israeliani che si sono consolidati nel tempo. Questo spiega, almeno in parte, perché l’antisionismo in Israele sia oggi merce rara, riservato a pochi individui con scarso o nessun seguito di massa. Ma spiega anche perché il possibile rafforzamento di una opposizione reale interna all’occupazione coloniale presuppone non l’attesa messianica del “risveglio” degli sfruttati israeliani ma, al contrario, l’intensificazione della resistenza palestinese all’occupazione e la lotta senza quartiere per l’autodeterminazione nazionale e l’emancipazione sociale. Solo questa lotta, e la lotta degli sfruttati medio-orientali, potrà “mettere in moto” dentro Israele le forze potenzialmente ostili al sionismo, forze che l’infame regime tiene incatenate a sé con i miseri privilegi del colonialismo. Ed è solo all’interno di questa prospettiva di resistenza e di attacco alla macchina del dominio sionista che acquista legittimità l’interrogarsi sui compiti programmatici di questa resistenza, e su quali debbano essere i corretti modi di condurla anche sotto l’aspetto specificamente militare. Altrimenti è evasione, fuga dal compito prioritario dell’oggi che è il pieno sostegno alla resistenza palestinese, e la denuncia instancabile del ruolo del governo Meloni, dello stato, dell’apparato militare e propagandistico italiani nel favorire il genocidio dei palestinesi e la tragedia di una seconda Nakba.

La mattanza di Gaza conferma in pieno la nostra previsione di una moltiplicazione delle situazioni di guerra generata da una sempre più profonda crisi generale dell’ordine mondiale dominato da Stati Uniti, Europa e alleati asiatici. Questa tendenza alla guerra e alla barbarie globale determina sempre di più uno spartiacque chiaro e netto. È accaduto in occasione della prima guerra mondiale e durante e dopo la seconda. Accade di nuovo oggi. Se la guerra in Ucraina ha messo in evidenza l’irriducibile antagonismo tra la difesa degli interessi comuni, immediati e futuri, del proletariato russo e di quello ucraino, e il sostegno a uno dei contendenti imperialisti a scontro per la spartizione dell’Europa Orientale, l’aggressione sionista a Gaza mette in luce ogni giorno più l’incompatibilità tra l’autentico sostegno alla causa palestinese e le illusioni campiste e multipolariste.

È a partire da questa linea di faglia che deve svilupparsi l’azione dei rivoluzionari e degli internazionalisti conseguenti, con l’obbiettivo di una ricomposizione su scala internazionale di tutte le forze politiche, sindacali e sociali che non abbiano capitolato alle sirene della logica perdente di un presunto “male minore”. Si tratta di un’azione che deve essere organizzata in controtendenza, perché anche la più forte e ardita delle spontaneità non può bastare. Ma proprio l’ultimo periodo ci ha mostrato che in questo lavoro non siamo soli: ai quattro angoli della terra, dal Sud America all’Asia, dal Medio Oriente all’Africa al cuore dell’Europa, esistono numerose organizzazioni e organismi che, pur con diversi accenti e sfumature e malgrado le affiliazioni storico-ideologiche profondamente diverse, mostrano di poter condividere questa prospettiva classista e internazionalista.

L’appello urgente dei sindacati palestinesi rivolto a metà ottobre ai sindacati di tutto il mondo a porre fine con i fatti a ogni complicità con Israele non solo per la liberazione palestinese ma anche “per la liberazione di tutti i diseredati e gli sfruttati del mondo”, e analoghi appelli di organismi politici dall’interno della resistenza palestinese, hanno avuto finora delle prime risposte significative, ma ancora “locali”. Crediamo si debba alzare il tiro, perciò proponiamo a tutti gli organismi sindacali e politici con cui siamo in contatto l’organizzazione di uno sciopero internazionale contro lo stato di Israele, il genocidio di Gaza e lo spostamento coatto della sua popolazione, a sostegno della causa palestinese.

9 dicembre 2023,

Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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