[INTERNAZIONALISMO] Sciopero venerdì 17 novembre a sostegno del popolo palestinese, per fermare la guerra di genocidio a Gaza

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Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

L’Esecutivo nazionale del SI Cobas ha preso ieri sera una decisione della massima importanza: organizzare uno sciopero venerdì 17 novembre in solidarietà con la lotta del popolo palestinese, per contribuire a fermare immediatamente il massacro che l’esercito israeliano sta portando avanti a Gaza con l’appoggio totale degli Stati Uniti e dei paesi dell’UE, tra cui in prima fila l’Italia di Meloni e Mattarella. Ne chiediamo la ragione al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.

Il Pungolo Rosso

Il SI Cobas sciopera venerdí 17 novembre,

per fermare il genocidio a Gaza.

Nostra intervista ad Aldo Milani,

coordinatore nazionale del SI Cobas

Aldo Milani – Questa nostra decisione non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo dna.

Da più di un anno, poi, siamo impegnati, con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) ed altri, in una serie di iniziative contro la guerra in Ucraina che ci hanno portato il 21 ottobre ad un grosso corteo davanti alla base militare italiana di Ghedi, dove sono depositate decine di bombe atomiche della Nato. In quella manifestazione abbiamo denunciato l’azione genocida dello stato di Israele, che data da decenni ma ha raggiunto in questi giorni una violenza sanguinaria spaventosa contro la popolazione di Gaza. Abbiamo fatto comunicati, indetto assemblee, partecipato a tante manifestazioni, ma – vista l’estrema urgenza di fermare questa mattanza – è venuto il momento di far fare un salto di qualità alla nostra azione. Lo sciopero è l’arma di lotta più efficace a nostra disposizione. E abbiamo deciso di usarla venerdì 17 in tutti i magazzini della logistica, nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro in cui siamo presenti.

Siamo fieri di essere il primo sindacato a prendere questa decisione, che accoglie l’appello lanciato dal movimento sindacale palestinese. Ma ben venga chiunque vorrà scioperare il 17 insieme a noi, a sostegno della resistenza palestinese e contro lo stato di Israele. E chi vorrà unirsi a noi nella manifestazione di sabato 18 novembre a Bologna (alle ore 15) su questi stessi obiettivi.

In effetti da più parti si sente la necessità di quello che tu chiami “salto di qualità”. Il governo di Israele è sembrato, finora, incurante delle migliaia di manifestazioni, alcune gigantesche, che ci sono state in tutto il mondo. Bisogna, perciò, alzare il tiro. Bisogna prendere iniziative che danneggino il più possibile la logistica di guerra, la produzione e la circolazione delle merci che interessano Israele e i paesi suoi alleati e padrini. Lo hanno chiesto oggi anche i Giovani Palestinesi in Italia.

A.M. – Il moto internazionale di sostegno e solidarietà con la lotta degli oppressi della Palestina è impressionante. Decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo. Il SI Cobas, e noi internazionalisti, ce ne sentiamo pienamente parte. Le piazze sono state ovunque piazze proletarie, a smentita di tutte le idiozie sul tramonto della lotta di classe e della classe lavoratrice. In questo momento Gaza, nella sua resistenza all’azione dello stato coloniale, razzista e genocida di Israele, è davvero “la patria di tutti gli oppressi del mondo”, come hanno affermato le compagne del Comitato 23 settembre. Tutto questo, però, non è bastato ancora a fermare il massacro in corso. Ci vuole qualcosa in più, e noi ci siamo. Domani (10 novembre) saremo in presidio al porto di Genova insieme all’Assemblea contro la guerra, che ha lanciato questa iniziativa, e al collettivo dei portuali, per cominciare a metterci di traverso alla logistica di guerra, in collegamento con altre iniziative simili a Barcellona, Oakland, Sidney. Il venerdì successivo (17 novembre) faremo uno sciopero che durerà da un minimo di 4 ore ad un massimo di 8 ore.

Per noi, ne siamo coscienti, è un grosso impegno. Siamo da anni sotto una serie di ininterrotti attacchi padronali e statali: al momento il conflitto più duro è quello con la multinazionale francese Leroy Merlin, che vuole attuare a Piacenza 500 licenziamenti per imporre un salto all’indietro delle condizioni di lavoro nei suoi magazzini, da noi conquistate con lotte di anni e anni. Assumiamo questo impegno con lo sguardo rivolto ai nostri fratelli e sorelle di classe della Palestina, dei paesi arabi e di tutto il mondo con la speranza che altri, molti altri, prendano la nostra stessa decisione. Lo facciamo sullo slancio della manifestazione di Ghedi che ha visto un particolare protagonismo dei nostri lavoratori, dei loro figli e delle loro figlie, una particolare spontaneità – lo ripeto: specie nelle giovani generazioni – nell’esprimere il sostegno alla lotta dei palestinesi che sentono come una loro lotta.

Puoi dirci qual è il tuo, il vostro, modo di inquadrare la “questione palestinese”?

A. M. – Rispondo in sintesi riprendendo alcuni concetti che con altri compagni internazionalisti abbiamo esposto in tutti questi anni. La nostra posizione non esprime solo un sentimento di indignazione e di rabbia contro chi oggi opprime e massacra una popolazione per conto dei propri interessi capitalistici strettamente legati a quelli degli stati imperialisti, gli Stati Uniti in primis, ma tende anche a far emergere un punto di vista di classe contro le classi borghesi alla scala mondiale.

La stampa borghese, esprimendo con ipocrisia il punto di vista della classe dominante, mistifica la realtà dello scontro in atto. Nei pochi casi in cui non è totalmente allineata alle posizioni sioniste o ultra-sioniste, suggerisce la tesi che in Palestina si stiano confrontando due diritti uguali e contrapposti, rispetto ai quali ci sarebbe, in ogni schieramento, un’ala ragionevole disposta al compromesso e alla pace (tra i palestinesi Abu Mazen e l’ANP), e un’ala oltranzista e intollerante che punta allo scontro. Insomma, i nemici sarebbero i “falchi” di entrambi i campi, anche se finora al governo del superfalco Netanyahu è stato permesso di compiere i crimini più efferati senza conseguenze di sorta. Questo modo di inquadrare la guerra in corso appartiene purtroppo anche a settori di movimento presenti nelle manifestazioni pro-Palestina, che tendono a concentrare tutta la loro attenzione sul ruolo di Hamas, vista come espressione delle borghesie arabe, finanziata da regimi apertamente dittatoriali e reazionari sul piano politico.

Peccato, però, che in questo schieramento apertamente borghese in cui si fa risucchiare anche qualche elemento di “sinistra”, ci si dimentichi che la fondazione stessa di Israele come stato colonialista gronda sangue da tutte le parti. La nascita e la continua espansione territoriale di Israele è stata possibile grazie al massacro della popolazione araba palestinese, alla distruzione di centinaia di villaggi, alla cacciata dei loro abitanti e alla confisca delle loro terre, alla creazione di una massa enorme di profughi, alla repressione sistematica della popolazione, all’arresto e spesso all’uccisione di migliaia e migliaia di bambini, giovani, donne.

Come si può mettere sullo stesso piano il radicalismo reazionario dei coloni israeliani che pretendono dal proprio governo un uso ancor più massiccio e brutale dell’esercito per scacciare a tutti i costi i palestinesi da ogni angolo della loro terra, e la resistenza delle masse palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania contro l’oppressione dello stato di Israele e le continue aggressioni dell’esercito e dei coloni? Come si può mettere sullo stesso piano chi opprime, tortura, uccide nel tentativo di portare a termine il proprio progetto di colonialismo di insediamento, e la parte più viva della popolazione palestinese che alla morte lenta per mano del nemico preferisce scendere in lotta per rendere evidente che la sua condizione è insopportabile? E anche se lo fa, come è stato e come è, sotto una dirigenza opportunista con interessi che sono in conflitto con le esigenze delle masse sfruttate palestinesi, non per questo può venire meno la nostra solidarietà.

Infatti! Si tratta di cogliere la sostanza di classe della guerra in corso ormai da quasi un secolo in Palestina.

A. M. – Pur con molte contraddizioni e illusioni di vario genere, l’attuale scontro rispecchia la volontà della massa degli oppressi palestinesi di non farsi chiudere definitivamente in un ghetto-prigione a cielo aperto di miseria e disperazione, controllato dalle forze armate dello stato sionista e da quelle dell’“autorità palestinese”. Se l’attuale condizione si perpetuasse, sarebbe la liquidazione della speranza di riscatto dei poveri e degli sfruttati. Questo, anche se dovesse vedere la luce un “mini-stato” palestinese sorvegliato a vista da Israele e fatto sopravvivere con i pelosi aiuti di qualche stato arabo o addirittura con i finanziamenti statunitensi.

Dal famigerato “piano di pace” tra Israele e l’OLP sono emerse tutte le contraddizioni in essere, vedi lo scontro militare in atto su tutto il territorio. Altro che pace! E si è reso evidente il capitolazionismo dell’OLP, che tuttavia non può essere adeguatamente combattuto e sconfitto da una prospettiva nazionalista e confessionale quale è quella che caratterizza Hamas. Ma tutto ciò non deve offuscare il dovere irrinunciabile di qualunque forza comunista, realmente internazionalista, e di un sindacato di classe come il SI Cobas, di appoggiare la lotta palestinese indipendentemente dalla sua direzione politica e militare. In ogni caso anche l’allineamento di molti alle critiche alla “destra rinunciataria” dell’OLP e all’attuale direzione del movimento di resistenza da parte di Hamas, per certi tratti reazionaria, non risolve il problema perché lascia impregiudicati i fondamenti teorici e le valutazioni politiche di fondo che stanno alla base delle posizioni dei comunisti e dei militanti dell’organizzazione sindacale SI Cobas – ovvero: quando è in corso una guerra, come quella attuale, che vede scontrarsi uno stato colonialista come Israele, protetto dall’insieme dei paesi imperialisti occidentali, e una popolazione come quella palestinese che si batte per la propria liberazione nazionale, non è possibile discutere da che parte stare.

Conosci, naturalmente, l’obiezione: per voi, allora, la società israeliana è un blocco unico in cui sono tutti, anche i lavoratori, altrettanti Netanyahu…

A. M. – Sia chiaro: noi internazionalisti abbiamo sempre considerato con la massima attenzione ogni segnale di critica, di opposizione, di de-solidarizzazione rispetto al proprio governo e al proprio stato proveniente dall’interno della società israeliana. Siamo convinti, infatti, che la soluzione della questione palestinese necessita che la spaccatura della società israeliana vada avanti, e si creino le condizioni (che al momento non ci sono ancora) perché gli sfruttati di Israele cooperino e lottino insieme alla massa degli oppressi palestinesi, così da poter aggredire e distruggere la macchina del sionismo dall’esterno e dall’interno. Ma rimandiamo al mittente come sciocchezze opportuniste le lamentazioni di chi pensa che si debba rinviare la resistenza palestinese a quando il proletariato di Israele si mostrerà capace di spezzare la sua complicità col regime sionista.

Per i comunisti internazionalisti e per un’organizzazione sindacale classista quale è il SI Cobas, il carattere internazionale della “questione palestinese”, e non solo di essa, si traduce nell’impegno a tracciare un piano d’azione con delle coordinate che servano a dare unitarietà alla lotta proletaria contro il dominio capitalistico sia sul versante metropolitano (Italia, etc.) sia su quello dei paesi “periferici”. La precondizione per muoversi in tal senso è dare tutto l’appoggio possibile alla lotta delle masse palestinesi, indipendentemente da chi attualmente ne egemonizza la direzione politica. Ciò significa operare una chiara scelta di campo: contrapporsi all’oppressione imperialista in Palestina e nell’area medio-orientale, nella consapevolezza che questa oppressione serve anche ad alimentare la sottomissione del proletariato nelle metropoli. E significa denunciare la totale complicità del governo Meloni e dello stato italiano nell’oppressione e nel genocidio del popolo palestinese.

Questa scelta strategica di aperta e piena solidarietà non equivale, però, a ritenere ininfluente chi e come dirige tale lotta. Noi siamo convinti che il proletariato e le masse povere palestinesi possano assumere su di sé i compiti di una rivoluzione democratica conseguente. E vogliamo contribuire a che questo avvenga. Diamo il nostro contributo a tale prospettiva tracciando qui, con nettezza, uno spartiacque “di principio” attraverso cui il proletariato dei paesi occidentali comincia a separarsi dalle proprie borghesie e dalle forze riformiste. Altrimenti le due sole strade che rimangono sono quelle opposte ma complementari: il nullismo, l’indifferentismo parolaio che si limita a registrare la distanza dell’attuale direzione della resistenza palestinese dal programma del comunismo (quando, per di più, la rivoluzione comunista non è certo all’ordine del giorno nell’area medio-orientale); oppure l’opportunismo di quanti si subordinano al nazionalismo liquidatorio e inconseguente delle direzioni borghesi o piccolo-borghesi palestinesi, finendo spesso con l’appoggiare le false soluzioni avanzate dagli Usa, dall’UE, dall’ONU, tutte volte a perpetuare il dominio imperialistico.

La terribile acutizzazione della guerra in Palestina, con la possibilità che si allarghi all’intero Medio Oriente, la guerra in Ucraina che continua, altre guerre e focolai di guerra un po’ dovunque, la corsa al riarmo, l’economia europea ad un passo dalla recessione, le “emergenze” climatiche l’una dopo l’altra, l’impoverimento di milioni di lavoratrici e lavoratori, una precarietà senza limiti…

A.M.– In effetti siamo all’interno di un enorme disordine mondiale, di una grande crisi di sistema che i capitalisti inevitabilmente scaricheranno con ancora maggior violenza sulle classi lavoratrici. Il SI Cobas sta facendo i conti quotidianamente con questo processo nella logistica, dove è più radicato, ma anche in altri comparti produttivi, anzitutto il metalmeccanico, in cui si sta espandendo. In quanto sindacato, contrattiamo il valore della forza-lavoro nella quotidiana lotta di attrito tra i lavoratori salariati e i capitalisti; ma sentiamo con particolare intensità i compiti della lotta contro la guerra e l’economia di guerra che impone disciplina schiavistica sui luoghi di lavoro, sparge veleni nazionalisti e razzisti contro gli immigrati, pretende crescenti sacrifici “per la patria”.

L’approfondirsi della crisi di sistema assottiglia i confini tra il sindacale e il politico, tanto per la borghesia quanto per la classe proletaria. Torno così al punto di partenza: insieme con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria, del Polo Obrero e del Partido Obrero dell’Argentina, e di molti altri organismi sindacali e politici di diversi paesi e continenti, stiamo lavorando a tessere i primi fili di un nuovo movimento proletario internazionale fondato su principi e una strategia rigorosamente internazionalisti. Ci siamo dati come primo obiettivo l’organizzazione di una giornata di lotta inter-continentale contro le guerre del capitale, tra le quali resta in primo piano la guerra tra NATO e Russia in Ucraina. Lo sciopero del prossimo 17 novembre sarà un passo su questa strada.


La manifestazione a Ghedi, il 21 ottobre, il lavoro politico che resta da fare

– Tendenza internazionalista rivoluzionaria / SI Cobas

25 ottobre

Il SI Cobas e la Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) hanno lavorato duro per settimane, nel più stretto coordinamento, per organizzare al meglio la manifestazione di Ghedi: decine e decine di assemblee nei magazzini della logistica, e non solo, molte iniziative cittadine da Torino a Milano, da Genova a Marghera e Verona, da Bologna a Napoli, una presenza attiva alle dimostrazioni a sostegno della resistenza palestinese. E dopo questo impegno, non c’è ragione per nascondere la nostra soddisfazione per la sua riuscita.

Non staremo a questionare sui numeri: 4.000 dicono i giornali che ne hanno parlato (cifra lasciata circolare dalla polizia, presente con uno schieramento imponente insieme a carabinieri, guardia di finanza, polizia locale e tanto di elicottero a sorvolare i manifestanti lungo la recinzione della base), 5.000 secondo il SI Cobas e Brescia anticapitalista. Atteniamoci a questi numeri, che ne fanno comunque la manifestazione più ampia tra quelle chiamate sabato scorso contro la guerra anche a Palermo, Pisa, Vicenza, Napoli, Taranto. Questo dato ha il suo peso, ovviamente, ma l’essenziale è altro.

E’ innanzitutto la chiarezza internazionalista, di classe della sua impostazione e dell’agitazione contro la guerra, l’economia di guerra e il governo Meloni che l’ha preparata, e che è stata svolta lungo tutto il corso del corteo e nel comizio finale. Inizialmente (nell’assemblea dell’11 giugno a Milano, quando fu lanciata) l’avevamo pensata come una dimostrazione per denunciare la guerra tra NATO e Russia in Ucraina in quanto guerra inter-imperialista diretta anzitutto contro i proletari ucraini e russi, ed al contempo contro quelli di tutto il mondo. I drammatici sviluppi degli ultimi tempi in Palestina l’hanno fatta diventare anche una dimostrazione contro l’infinita, sanguinaria guerra colonialista che lo stato di Israele conduce da quasi un secolo per cacciare dalla sua terra il popolo palestinese. E così sabato, anche da Ghedi, si è levato un grido di ribellione, tra i tanti che si sono alzati in tutto il mondo, contro il massacro che il governo e l’esercito di Israele stanno mettendo in atto contro la popolazione di Gaza con l’appoggio unanime dei loro protettori gangster di Washington, Bruxelles e Roma.

L’altro dato distintivo del corteo di Ghedi è stata la sua larghissima composizione operaia e proletaria, che è stata – tra l’altro – il risultato della giornata di sciopero nazionale indetta venerdì 20 ottobre da larga parte del sindacalismo conflittuale (SI Cobas, SGB, CUB, Usi, Adl-Varese) contro la guerra, l’economia di guerra, il carovita, per sostanziosi aumenti salariali. Non si tratta solo di un dato quantitativo, visibile ad occhio nudo. C’è stata anche l’attiva partecipazione di tanti, davvero tanti, proletari del SI Cobas nel cantare e rilanciare le parole d’ordine politiche caratterizzanti del corteo: governo Meloni, governo dei padroni; contro le guerre del capitale, sciopero, sciopero generale; Palestina libera / Free, free Palestine; sciogliere la NATO. Bisogna risalire alla manifestazione dell’ottobre 2018 a Roma contro i decreti Salvini per un simile livello di coinvolgimento politico attivo. In questo caso, però, le tematiche erano assai più generali, e i bersagli assai più grossi e impersonali del singolo servitore dei padroni. Anche il tema-Palestina è stato fortemente presente in tutto il corteo (molti lavoratori, molti ragazzi e ragazze figli/e di immigrati, proprio tanti/e, avevano portato bandiere della Palestina). E quando il compagno Zadra ha lanciato lo slogan “Palestina libera, Palestina rossa”, non esattamente la prospettiva di Hamas, lo slogan è stato ripreso ben al di là della testa del corteo.

Il terzo aspetto rilevante è stata l’adesione ad esso, e la partecipazione, di una molteplicità di organismi del territorio bresciano, di aree sindacali e politiche, e di settori di movimento che hanno aderito al messaggio inequivocabilmente internazionalista, di classe, ed insieme unitario, del corteo: “uniamo le nostre forze contro le loro guerre”. Lo apriva, infatti, un piccolo gruppo di cittadine e cittadini di Ghedi di orientamento pacifista con le loro bandiere arcobaleno, sebbene il corteo non sia stato un corteo pacifista. Lo abbiamo spiegato con chiarezza: noi siamo contro le guerre del capitale, ma non certo contro la guerra di liberazione anti-coloniale e anti-imperialista degli oppressi palestinesi. Un corteo che ha evocato la prospettiva della guerra di classe contro il capitalismo per venire a capo della crisi storica di questo sistema sociale, e della mostruosa barbarie che sta producendo. Particolarmente significative, tra le altre (un rappresentante del BDS, i Giovani palestinesi in Italia, Sgb, Fgc, Slai Cobas per il sindacato di classe, etc.), la partecipazione di una delegazione del Movimento per il lavoro 7 novembre di Napoli, costantemente presente in tutte le iniziative anti-militariste, esemplare nella sua agitazione sul legame tra l’incremento della spesa bellica e i tagli alla spesa sociale, e quella di un nutrito spezzone anarchico attivo nel propagandare il boicottaggio delle operazioni di guerra laddove esse concretamente si articolano.

Abbiamo voluto questa manifestazione davanti alla base di Ghedi perché questa base è la storica base di attacco dell’aeronautica militare italiana, e il caso ha voluto che proprio qualche giorno fa la base bresciana sia stata messa in allerta atomica per gli imprevedibili sviluppi della guerra di Israele contro il popolo palestinese. Questa scelta politica è stata ed è coerente con il fatto che, a differenza di tutto l’arcipelago kampista, per noi l’Italia non è una colonia statunitense da sottrarre alle grinfie dello zio Sam per farne il fattore di pace previsto, a parole vuote, dalla “Costituzione più bella del mondo”; è, al contrario, un paese a tutti gli effetti imperialista, fondatore e perno della NATO, predatore delle risorse naturali ai quattro angoli della terra e sfruttatore universale del lavoro salariato e del contadiname povero del mondo. E quindi il nostro primo e principale nemico è qui, in Italia, ed è costituito dallo stato e dal governo italiano, macchine operative al servizio del capitalismo italiano; il governo Meloni oggi, come lo furono ieri il governo Draghi e i governi di centro-sinistra, interamente coinvolti nella preparazione della guerra in Ucraina e della guerra ai palestinesi. Per non parlare delle decine di missioni militari nei cinque continenti, che sono state ricordate e denunciate ripetutamente durante il corteo – “ritiro di tutte le missioni militari italiane all’estero”! -, così come è stato ricordato e denunciato il terrorismo di stato della NATO.

Sabato scorso, in altre piazze, sono stati liberi di scorazzare esponenti di quella “sinistra istituzionale” o para-istituzionale pronta ad ogni tipo di accordo con il centro-sinistra più atlantista, guerrafondaio e filo-sionista della storia del dopoguerra; a Ghedi no, non è potuto accadere. E ne siamo fieri. Senza che questo abbia, in alcun modo, significato occhieggiare a posizioni kampiste. Per noi, lo diciamo da sempre e non ci stancheremo di ripeterlo: la sola prospettiva reale di liberazione è quella della rivoluzione sociale anti-capitalista alla scala internazionale – non c’è nessun capitalismo in salsa russa o cinese o iraniana da salvare, nessun mondo capitalistico multipolare da preferire a quello, orribile, a guida statunitense e occidentale. Non a caso lo striscione firmato unitariamente dalla TIR e dal Laboratorio politico Iskra diceva: “contro le guerre del capitale, lotta di classe internazionale”. Che la guerra in Ucraina sia combattuta anche dalla Russia e dai suoi alleati scoperti e coperti per finalità di dominio e di sfruttamento, può negarlo solo quell’accozzaglia di ciarlatani e mascalzoni social-nazionalisti che compongono il mondo “rosso”-bruno. Perfino i distratti giornalisti della stampa e delle tv locali hanno dovuto registrare con una sorprendente fedeltà che la manifestazione di Ghedi è stata “internazionalista, anti-colonialista e anti-imperialista”, si è espressa nel senso di “dichiarare guerra alle guerre”, schierandosi contro la guerra in Ucraina e contro tutte le guerre del capitale, per la chiusura della base atomica di Ghedi, per lo scioglimento della NATO, contro il governo Meloni… (sentire e leggere per credere).

https://www.giornaledibrescia.it/bassa/all-aeroporto-militare-di-ghedi-4mila-persone-per-dire-no-a-tutte-le-guerre-1.3953703 (vedi al termine del testo)

Le caratteristiche essenziali della manifestazione di Ghedi sono state ben colte anche all’esterno dell’Italia. Messaggi di piena condivisione e di solidarietà ci sono giunti dal Partido Obrero e dal Polo Obrero dall’Argentina, dal Fronte unito internazionale contro l’imperialismo e il fascismo con centro in Germania, da Marxist Tutum della Turchia, dalla California, dagli Angry Workers britannici, dal Giappone, dal Sud-Africa, mentre – per difficoltà logistiche dell’ultimo momento – non ha potuto esserci un compagno del Fronte dei lavoratori dell’Ucraina, un piccolo organismo militante in Ucraina contro la guerra. Presenti con una loro bandiera, ed entusiasti della manifestazione, alcuni compagni del movimento contro la guerra di Zurigo appartenenti all’Icor.

Detto ciò, non siamo certo soddisfatti dalla frammentazione tematica e organizzativa della giornata del 21 ottobre. Abbiamo cercato fino all’ultimo di dare a questa giornata quanto meno una cornice politica unitaria, ma non ci siamo riusciti per il rifiuto di altre componenti arrivate, nella loro attitudine anti-unitaria, al punto da cancellare dai loro social la manifestazione di Ghedi (la realtà, però, è qualcosina di un po’ più solido dei messaggi in rete). Ex post rileviamo che la piazza di Palermo è stata la più vicina alla nostra sensibilità e ai nostri orientamenti, perché più fortemente marcata in senso anti-militarista, contro la guerra (nessuno può sostenere che “guerra alla guerra” sia la stessa cosa che “no all’escalation” o “fuori l’Italia dalla guerra”); ed anche perché – come è stato fatto a Ghedi e nei paesi vicini, in particolare dai compagni di Brescia anticapitalista – i suoi organizzatori hanno saputo preparare il terreno con una propaganda nei quartieri popolari della città, fiduciosi di poter essere ascoltati dalla “gente comune”, ed almeno in parte, sia nell’area bresciana che a Palermo, questo è accaduto. Tuttavia nessuna delle molteplici istanze presenti a Pisa la sentiamo estranea – salvo il loro forte retrogusto territorialista. Per questo rilanceremo quanto prima a tutti/e coloro che si sono attivati/e nella giornata del 21 ottobre nuove proposte di mobilitazione – escluse, però, rigorosamente le opzioni elettoralistiche e quelle kampiste, che riteniamo entrambe estranee, se non contrapposte, agli interessi della classe lavoratrice.

Come hanno dichiarato il compagno della TIR che ha aperto il comizio conclusivo a Ghedi e il compagno Roberto Luzzi, responsabile internazionale del SI Cobas, la nostra ambizione va molto al di là dei manifestanti del 21 ottobre e del quadro italiano, entro cui restano prigionieri tutti coloro per cui il riferimento è l’impossibile ricerca di un diverso ruolo per l’Italia, l’Italia capitalista, si intende.

La nostra ambizione – rafforzata dalla crescita politica di un’avanguardia di proletari immigrati organizzati nel SI Cobas – è raggiungere la grande massa dei proletari italiani, spiegando loro che le guerre che paiono lontane sono in realtà sempre più vicine. E che la posizione di passività, di silenzio, di attesa li danneggia fortemente, sia nell’immediato (inflazione, taglio delle spese sociali, disciplina militare sui luoghi di lavoro che fa aumentare i morti sul lavoro, etc.) sia in prospettiva. Bisogna mobilitarsi contro le guerre in corso, e contro la tendenza al riarmo e alla precipitazione della situazione verso un nuovo conflitto mondiale, prima che sia troppo tardi.

La nostra ambizione è raggiungere i giovani che negli scorsi anni si sono mossi contro la devastazione dell’ambiente, chiamandoli a comprendere che è tempo, per loro, di fare un passo avanti e battersi contro la prima causa di devastazione dell’ambiente naturale e della vita umana che sono le guerre del capitale. La figura di riferimento di molti di loro, Greta Tunberg, l’ha fatto schierandosi con i palestinesi: a quando una salutare scossa anche tra i FFF, o i NG italiani?

La nostra ambizione è raggiungere tutte le donne senza privilegi che negli scorsi anni hanno raccolto anche in Europa il grido di lotta contro la violenza sulle donne e il patriarcalismo capitalistico partito dall’America del Sud “ni una de menos”, perché facciano proprio l’impegno esplicito e fondamentale della lotta contro le guerre del capitale che hanno un impatto particolarmente duro proprio sulla vita delle donne, e insieme alle compagne del Comitato 23 settembre, presenti a Ghedi, sappiano opporre ai dottor Stranamore di Occidente e di Oriente che le stanno pianificando: “mai più figli per le vostre guerre!”.

La nostra ambizione – ci stiamo lavorando intensamente – è promuovere il coordinamento su scala internazionale di tutte le forze politiche, sindacali e sociali che condividono, almeno nelle sue linee essenziali, la nostra ferma impostazione di classe, internazionalista, che vede nella classe lavoratrice di tutti i paesi la sola forza, la sola potenza sociale capace di mettersi di traverso al piano inclinato verso una nuova apocalittica guerra mondiale per la rispartizione del mercato mondiale. La gigantesca solidarietà che gli oppressi della Palestina stanno ricevendo dagli oppressi di tanti paesi del mondo ci incoraggia nel ritenere questo ambiziosissimo obiettivo praticabile. Ghedi è stata un passo in avanti su questo cammino, e non ci fermeremo di sicuro a metà strada.

Oggi più che mai: proletari, proletarie, oppressi, oppresse di tutto il mondo, uniamo le nostre forze in un solo irresistibile schieramento anti-capitalista. Non abbiamo nulla da perdere. Abbiamo un mondo senza sfruttamento del lavoro, senza oppressione coloniale, di razza, di genere, senza guerre per il profitto e il dominio, da conquistare!

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