Le difficoltà della reintroduzione di specie di fauna selvatica in Natura, il caso del Ghepardo in India.

3 months ago 84

Il Ghepardo (Acinonyx jubatus) è ormai in grave rischio di estinzione, purtroppo.

Una recente (2016) ricerca (Il declino globale del ghepardo Acinonyx jubatus e cosa significa per la conservazione, in PNAS – rivista ufficiale della National Academy of Sciences, NAS, degli Stati Uniti) coordinata dalla dott.ssa Sarah Durant, dell’Istituto di Zoologia della Società zoologica londinese, ha portato alla stima della presenza in natura di soli 7.100 esemplari sparsi in un areale vastissimo, dal Sud Africa all’Iran.

Le cause sono le solite: bracconaggio, commercio illegale, distruzione dell’habitat.

Ben 57 parchi faunistici, fra cui l’italiano Parco Natura Viva di Bussolengo (VR), aderenti al Programma europeo per le specie faunistiche minacciate (E.E.P.), cercano, però, di costituire una “riserva genetica” per la riproduzione e la reintroduzione in natura.

Per il Ghepardo, l’essere vivente più veloce sulla Terra (un esemplare ha superato i 115 km/h), è iniziato lo scatto più difficile: quello per sfuggire all’estinzione.

E dobbiamo aiutarlo in tutti i modi, tuttavia la reintroduzione in Natura è tutt’altro che semplice e un serio programma di reintroduzione devv’essere predisposto con estrema attenzione, come sta dimostrando l’esperienza tutt’altro che entusiasmante attualmente in corso in India.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Ghepardo (Acinonyx jubatus)

da La Stampa, 3-4 agosto 2023

In India è morto il nono ghepardo dei 20 trasferiti dall’Africa, ecco perché è così complicato reintrodurre in natura le specie minacciate.

Il progetto di ripopolamento dei ghepardi in India, importati dall’Africa, perde un altro esemplare: nelle scorse ore è morta Dhatri, una delle due femmine superstiti dei venti esemplari fatti arrivare dal Sudafrica e dalla Namibia in due spettacolari operazioni di ricollocazione dei grandi felini dal continente africano al subcontinente indiano lo scorso autunno. È il nono ghepardo morto in India: sei erano adulti del gruppo emigrato, altri tre erano cuccioli nati in cattività da una madre trasferita. I responsabili del Parco Nazionale di Kuno fanno sapere che tutti gli altri ghepardi, che vivono adesso in aree delimitate, vengono costantemente controllati e sono in buona salute. 

In India i ghepardi si sono estinti 70 anni fa e per questo il governo indiano, con alcune associazioni africane come il Cheetah conservation fund, stanno provando a reintrodurli nel territorio, con non poche complicanze  Il “project cheetah” è il primo tentativo di reintroduzione e spostamento di un grande carnivoro da un continente ad un altro, ma purtroppo non sta dando i risultati previsti. Le morti hanno sollevato numerose domande da parte di molti esperti internazionali sull’idoneità dell’habitat e sulla gestione del progetto, per il quale sono stati investiti quasi 6 milioni di euro. Alcuni ambientalisti sostengono che al Kuno National Park, dove i ghepardi sono stati rilasciati, non sia stato riservato abbastanza spazio ai felini, mentre altri lamentano che il progetto sia stato avviato troppo frettolosamente. Tuttavia, gli scienziati del progetto hanno insistito sul fatto che all’inizio del progetto era lecito aspettarsi diversi decessi e hanno previsto che il numero di vittime si sarebbe stabilizzato nel prossimo futuro. Le autorità del parco hanno dichiarato che i cuccioli erano deboli, sottopeso ed estremamente disidratati e che quelli adulti sono morti a causa di vari fattori, tra cui insufficienza renale e lesioni da accoppiamento. “Se si vuole reintrodurre un animale in natura, bisogna farlo con molta attenzione”, ha dichiarato la professoressa Sarah Durant, della Zoological Society di Londra. “Ed è chiaro che le cose non stanno andando bene. Il programma sembra affrettato”.

“Reintrodurre una specie in natura è sempre rischioso, ma “è molto peggio di quanto pensassi: un vero disastro”, afferma Ullas Karanth, direttore emerito del Center for Wildlife Studies di Bengaluru, che si è opposto fin dall’inizio  “L’idea che questo porterà a una popolazione autosufficiente è completamente assurda” mentre  Laurie Marker , fondatrice e direttrice esecutiva del Cheetah Conservation Fund in Namibia e parte del team di trasferimento dei ghepardi. afferma che “Morti e lesioni sono rischi intrinseci per qualsiasi animale selvatico catturato e spostato dalle persone. La reintroduzione di una specie che si è estinta non sarà certamente un processo facile”.

Ramanuj Pratap Singh Deo, ultimo Maharaja del Koriya, dopo aver ucciso gli ultimi tre Ghepardi viventi allo stato selvatico in India (1947)

Secondo alcuni ricercatori indiani, invece, il Kuno National Park non è vero che possa ospitare 21 ghepardi, come avevano previsto le autorità “Abbiamo portato troppi ghepardi troppo presto e non abbiamo lo spazio per loro”, afferma Arjun Gopalaswamy , uno scienziato indipendente  con esperienza sui grandi felini in Africa e in India. “Stiamo vedendo le prove che crescono di giorno in giorno.” Anche secondo Karanth, infatti, questo non è un percorso realistico per reintrodurre la specie. “Se l’India vuole davvero riportare indietro i ghepardi, allora all’animale dovrebbe essere permesso di disperdersi naturalmente nel territorio. Il vero obiettivo del progetto non è quello di essere un ospizio per i ghepardi, è quello di stabilire una popolazione”, dice.
I sostenitori del trasferimento invece affermano che gli animali devono stare vicini per potersi accoppiare, ma i ricercatori e gli scienziati esperti di ghepardi, sostengono, al contrario, che gli animali sarebbero dovuti essere reintrodotti in spazi più ampi, per favorirne l’espansione.
Karanth, afferma infatti: “Questo dimostra una completa ignoranza ecologica. Quello che stanno dicendo è che i ghepardi dovrebbero ora trasformarsi ecologicamente in leopardi, e una volta raggiunti gli obiettivi ufficiali, dovrebbero trasformarsi di nuovo in ghepardi” e  aggiunge che i milioni di dollari spesi per il progetto sarebbero potuti invece andare alla conservazione della fauna selvatica in India.
Oltre ai problemi sull’idoneità dell’habitat indiano, c’è anche una questione genetica. Il ghepardo asiatico, una volta abitante dell’India, è la sottospecie Acinonyx jubatus venaticus, mentre il ghepardo dell’Africa sudorientale che è stato utilizzato per la reintroduzione è l’Acinonyx jubatus jubatus. Secondo uno studio pubblicato su Molecular Ecology nel 2011 e confermato da altri studi recentissimi, i ghepardi africani e asiatici si sono geneticamente distinti e separati da 32.000 a 67.000 anni fa e infatti le ricerche effettuate nel 2022 hanno dimostrato che tra la sottospecie africana e quella asiatica c’è una forte differenziazione genetica. Insomma, in India stanno reintroducendo una sottospecie che non ha mai toccato il suolo indiano prima d’ora, e si sta indagando sul fatto che possa essere questo uno dei motivi per il quale si stanno verificando i decessi e per cui il progetto non sta ottenendo i risultati sperati.
Secondo gli ecologi internazionali che si occupano di reintroduzione di fauna selvatica, infatti, per garantire che gli animali reintrodotti abbiano le migliori possibilità di sopravvivere e riprodursi, gli individui dovrebbero provenire da popolazioni che somigliano geneticamente ed ecologicamente alla popolazione originaria di quel luogo. In generale, l’approvvigionamento da popolazioni con condizioni ambientali simili al sito di reintroduzione massimizzerà la possibilità che gli individui reintrodotti si adattino bene all’habitat del sito di reintroduzione, altrimenti ci sono possibilità che la reintroduzione non vada a buon fine (per approfondimenti leggi qui  e qui).
Ma facciamo un passo indietro.

Bisonte europeo (Bison bonasus), esempio riuscito di reintroduzioni in varie parti d’Europa

Cos’è una reintroduzione?
È necessario distinguere una reintroduzione da un ripopolamento. Per reintroduzione si intende l’immissione di una specie estinta da un territorio, ma presente in epoca più o meno remota; quindi, reintrodurre laddove non ci sono più individui. Per restocking o ripopolamento si intende invece l’incrementare una popolazione con esemplari della stessa specie e con le stesse caratteristiche genetiche, laddove quindi ci sono ancora individui.
Nel caso dell’orso bruno in nord Italia, per esempio si parla di ripopolamento, perché anche prima del progetto Life Ursus era ancora presente qualche individuo. Nel caso del ghepardo in India invece si tratta di reintroduzione perché la specie era proprio estinta. Cosa ancora diversa è un ritorno naturale, come nel caso del lupo, che dopo aver sfiorato il bordo dell’estinzione, è tornato a ripopolare i nostri territori in modo spontaneo, aiutato solo dai progetti di conservazione, dai corridoi ecologici e dalla protezione dal bracconaggio. In altri casi ancora, come nel caso dello sciacallo dorato in Italia, l’arrivo è spontaneo e la presenza dell’animale è del tutto nuova: si tratta di un’espansione di areale.

Nel caso delle reintroduzioni e dei ripopolamenti questi possono essere fatti partendo da popolazioni in situ, prelevando animali in natura e spostandoli di zona (come nel caso degli orsi in Italia), oppure reintroducendo individui che si trovavano in cattività (come nel caso della reintroduzione del bisonte europeo in Slovacchia e Romania da parte di alcuni zoo europei, come il Parco Natura Viva)
Idealmente, le popolazioni dovrebbero essere reperite in situ quando possibile a causa dei numerosi rischi associati alla reintroduzione da popolazioni in cattività. Sebbene queste abbiano sempre di più un grande successo, tuttavia, un’elevata percentuale di traslocazioni e reintroduzioni non ha avuto successo nello stabilire popolazioni vitali. Ad esempio, in Cina la reintroduzione di panda giganti in cattività ha avuto effetti contrastanti ed i primi panda rilasciati morirono tutti rapidamente dopo la reintroduzione.

Quali sono i requisiti per una reintroduzione che funzioni?
L’unione internazionale per la conservazione della Natura (IUCN) ha redatto delle linee guida per la reintroduzione di fauna selvatica, che sottolineano, oltre all’importanza di avere individui con una genetica idonea alla popolazione che si vuole ristabilire, anche la necessità di una valutazione della disponibilità di habitat idonei come componente chiave della pianificazione della reintroduzione. Una valutazione inadeguata del sito di rilascio può aumentare le possibilità che la specie rifiuti il sito e si sposti in un ambiente meno adatto. Ciò può ridurre l’idoneità della specie e quindi diminuire le possibilità di sopravvivenza. Ovviamente, inoltre, è inutile reintrodurre una specie, estinta in un determinato habitat se non si eliminano le cause che hanno portato all’estinzione. Per questo gli esperti considerano fondamentale il ripristino dell’habitat originario e il miglioramento delle cause di estinzione per questi progetti.
Quando si ricercano individui per la reintroduzione, inoltre, è importante considerare l’adattamento locale, l’adattamento alla cattività (per la conservazione ex situ), la possibilità di depressione da consanguineità e la tassonomia, l’ecologia e la diversità genetica della popolazione di origine. Le popolazioni reintrodotte sperimentano una maggiore vulnerabilità alle influenze di selezione, ai processi evolutivi, alle differenze climatiche ed ecologiche. Infine, spesso i progetti di reintroduzione non funzionano perché non viene portato avanti il monitoraggio a lungo termine, per cui la IUCN e Rewilding Europe (fondazione no profit per il ripristino delle zone naturali in Europa) ritengono sia imprescindibile ampliare le ricerche anche dopo il rilascio in Natura.

Importanza della reintroduzione ed esempi virtuosi
Quando le specie e gli habitat si riducono o scompaiono, processo noto come perdita di biodiversità, si minaccia l’approvvigionamento alimentare, i posti di lavoro, le economie e la salute umana. Un team globale di ricercatori, guidato dall’organizzazione senza scopo di lucro statunitense  RESOLVE  e dal Centro di monitoraggio della conservazione mondiale del Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP-WCMC), ha evidenziato come e dove la reintroduzione dei grandi mammiferi potrebbe avere un effetto a catena su interi ecosistemi.

Secondo i ricercatori, queste sono le reintroduzioni di specie che migliorerebbero la salute del pianeta:
In Europa: reintrodurre il bisonte europeo, il castoro eurasiatico, la renna, il lupo e la lince riporterebbe le popolazioni storiche di grandi mammiferi in 35 ecoregioni

In Asia: il ripristino di cavalli selvaggi e lupi nell’Himalaya aumenterebbe dell’89% la copertura intatta di grandi mammiferi nella regione

In Africa: la reintroduzione di ippopotami, ghepardi, tsessebe comuni, licaoni e leoni potrebbe più che raddoppiare la copertura regionale di assemblaggi intatti (un aumento del 108%)

In Nord America: la reintroduzione mirata o una migliore conservazione dell’orso bruno e nero americano, del bisonte americano e del ghiottone aumenterebbe del 117% la copertura degli assembramenti intatti nella regione

In Sud America: la reintroduzione di giaguaro, pacarana, cervo della pampa, cervo di palude e pecari dalle labbra bianche aumenterebbe la copertura di assemblaggio intatto su centinaia di migliaia di chilometri quadrati.

Un esempio realmente accaduto che ha dimostrato i vantaggi della reintroduzione è stato quello dei lupi grigi nel Parco nazionale di Yellowstone negli Stati Uniti negli anni ’90. Ripristinare solo quella specie mancante da quella zona ha avuto un impatto enorme e continuo, ripristinando un equilibrio tra predatori ed erbivori, avvantaggiando la vegetazione e aumentando le popolazioni di altre specie, compresi i castori che hanno cambiato il corso dei fiumi.

Rewilding Europe, infine, è un altro esempio virtuoso di progetti integrati e multidisciplinari per le reintroduzioni e il recupero della natura in tutto il nostro continente. Gli esperti dei diversi Paesi che ne fanno parte condividono l’idea secondo cui i processi naturali, che svolgono un ruolo vitale nel modellare i paesaggi, permettono perfettamente alla natura di prendersi cura di sé stessa. Il rewilding è dunque un approccio progressivo alla conservazione attraverso cui, i ritmi naturali della fauna selvatica creano habitat più selvaggi e ricchi di biodiversità. “Non dobbiamo solo proteggere la natura, ma anche ripristinarla. Molti ecosistemi, la base della nostra ricchezza naturale, sono rotti. Il rewilding offre un’opportunità storica per recuperarli. Ecosistemi solidi e connessi ci rendono più resilienti agli impatti dei cambiamenti climatici.”

E dopo tutto, tornando ai nostri ghepardi, vittime di un complicato esperimento, c’è da chiedersi se forse non sarebbe meglio investire soldi ed energie per tutelare specie e habitat che già abbiamo, invece che farli estinguere per poi tentare di ripristinare quello che abbiamo distrutto. Ma questo è un altro racconto. (Chiara Grasso)

areale del Ghepardo e distribuzione

A.N.S.A., 27 dicembre 2016

I ghepardi verso l’estinzione, scienziati lanciano Sos.  Studio, in natura ne restano soltanto 7.100.

ROMA, 27 DIC – I ghepardi verso l’estinzione. A lanciare l’Sos sono gli scienziati: in uno studio pubblicato su Pnas, rilevano che soltanto 7.100 esemplari di questi felini sopravvivono allo stato selvatico. Più della metà vive appartiene a un’unica popolazione che ha il suo habitat in sei Paesi dell’Africa meridionale, mentre in Asia sono praticamente scomparsi.
Gli animali terrestri più veloci al mondo potrebbero presto essere solo un ricordo se non verranno prese “urgenti misure” di conservazione, avvertono gli scienziati. Guidato dalla Zoological Society of London, da Wildlife Conservation Society e da Panthera, lo studio rivela che i ghepardi sono stati cacciati dal 91% del loro territorio. Le più colpite sono le popolazioni di ghepardo asiatico, con meno di 50 esemplari rimasti in un’area isolata dell’Iran. Per questo i ricercatori chiedono che l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) aggiorni il loro “status” da “vulnerabile” a specie “a rischio”.
L’uomo è il principale motivo del declino di questi felini: bracconaggio e traffico illegale, commercio di esemplari come animali esotici domestici, perdita di habitat per l’avanzare di attività umane, uccisioni per mano di allevatori per la minaccia ai capi di bestiame. Come se non bastasse, rimarcano gli scienziati, il 77% dell’habitat dei ghepardi si trova al di fuori di aree protette. Solo nello Zimbabwe la popolazione è crollata da 1.200 a un massimo di 170 esemplari in appena 16 anni, un calo dell’85% di tutti i ghepardi del Paese.

Ghepardo (Acinonyx jubatus)

(disegno S.D., foto d’epoca, da La Rivista della Natura)

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