Le regole della copertura mediatica delle tragedie. Caccia ai ricercatori che combattono la disinformazione. Come diventare un magnate della pubblicità, una storia americana. Facebook al servizio dei governi. Cambi al vertice per TikTok. Né con la Corte, né senza la Corte.

10 months ago 63

Le regole della copertura mediatica delle tragedie

Non sono mancate le polemiche contro i giornalisti per aver parlato incessantemente del sommergibile scomparso Titan, senza dare adeguata copertura al naufragio che ha visto morire circa 700 migranti in acque greche. Politico ha evidenziato come la copertura delle notizie non sia quasi mai proporzionale al numero di vittime perché, di fatto, per i media non tutte le morti sono uguali. Come per tutte le notizie, la vicinanza del luogo in cui avviene la tragedia è fondamentale per chi fa la cronaca. Se fosse avvenuto nelle acque dell’oceano indiano, non avrebbe fatto così tanto notizia negli USA – ma il sommergibile si trovava in acque americane, rendendo così le morti “locali”. Due dei morti del Titan erano miliardari, a differenza delle vittime del naufragio nel Mediterraneo. Anche questo è un elemento che arricchisce la notizia, lasciando spazio al racconto delle vite delle vittime e suscitando vari tipi di sentimenti nei lettori. Le morti causate da eventi come un incidente aereo solitamente ricevono una copertura maggiore rispetto a quelle causate da un disastro naturale, poiché le prime sono più rare delle seconde. Per lo stesso motivo, giornalisti e lettori si sono abituati ai naufragi di migranti, dando più spazio a eventi come l’implosione di un sommergibile. A ciò si aggiunge il fattore “avventura”. Il Titan ha assunto le sembianze di una vera avventura che ha suscitato moltissimo interesse tra le persone. Come regola generale, dunque, più il disastro è prevedibile minore è la copertura che ci si può aspettare.

Caccia ai ricercatori che combattono la disinformazione

A Capitol Hill e nei tribunali, politici e attivisti del Partito Repubblicano stanno portando avanti una campagna legale contro università, think tank e società private che studiano la diffusione della disinformazione. L’accusa riguarderebbe una loro collusione con l’attuale governo per sopprimere le conversazioni online dei conservatori. Come raccontato dal New York Times, la commissione di giustizia della Camera, che a gennaio è passata sotto il controllo della maggioranza repubblicana, ha inviato decine di lettere e citazioni in giudizio a ricercatori ed università che combattono le fake news. In linea con questa, sono nate altre iniziative tra cui quella del gruppo di pressione conservatore guidato da Stephen Miller, l’ex consigliere di Trump, che il mese scorso ha intentato un’azione legale presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti in Louisiana. Il fronte dei Repubblicani si ritrova unito in questa battaglia legale che però rallenta e minaccia così il contrasto alla disinformazione negli USA. “Penso che sia un tentativo per rallentare la ricerca”, ha affermato Jameel Jaffer, direttore esecutivo del Knight First Amendment Institute della Columbia University, un’organizzazione che lavora per salvaguardare la libertà di parola e la stampa. I Repubblicani sostengono che i ricercatori violino le leggi antitrust ed il primo emendamento sulla libertà di parola, attraverso attività di censura online. Ancora una volta il confine tra disinformazione e libertà di parola sembra sbiadirsi e cambiare a seconda del credo dei diversi schieramenti politici. In tale contesto giocano un ruolo determinante non solo i governi ma anche le stesse piattaforme social, capaci di definire prima di tutti le “regole del gioco” su internet: Twitter, ad esempio, ha deciso di revocare le restrizioni e ripristinare gli account che erano stati sospesi. Fin dove però la libertà di espressione potrà essere accettata affinché non danneggi le società, la politica e, dunque, la nostra storia? 

Come diventare un magnate della pubblicità, una storia americana

Ci sono storie che non passano inosservate. È il caso di Mark Penn, CEO di Stagwell, una delle holding che cerca di entrare nella cerchia dei big del marketing. Come racconta Semafor, l’ex sondaggista Penn è una delle figure più divisive della politica democratica americana. Sebbene abbia avuto un passato burrascoso e ambiguo (aveva orchestrato la campagna fallimentare di Hillary Clinton contro Barack Obama prima di essere estromesso), avvicinandosi anche al mondo trumpiano, è riuscito a diventare un magnate della pubblicità. Si definisce un “cultural misfits”, un disadattato culturale ma altresì vuole essere riconosciuto come un visionario politico che ha fatto del marketing il proprio punto di forza. La tesi di Penn era che il marketing, come altre industrie, non fosse tanto aperto alle tecnologie digitali, e dunque una holding orientata al digitale avrebbe avuto un vantaggio immediato. Le sue prime acquisizioni includono forse la più importante società di consulenza del Partito Democratico, SKDK. Nel 2020, ha cambiato rotta, prendendo il controllo di un insieme di agenzie creative tradizionali di grande prestigio come Anomaly e 72andSunny attraverso l’acquisizione di MDC, una holding concorrente. È proprio sul mondo dei media, del marketing e dei social che oggi la politica americana gioca una partita importante: non è un caso la presenza sempre più rilevante di iniziative volte a convincere i ricchi democratici ad investire nella creazione di media company e alla sponsorizzazione di alcuni influencer sui social media, cercando di contrastare il potere che hanno le società di media vicine ai conservatori nelle televisioni e nelle radio locali (vedi Editoriale 135). Lui forse l’aveva capito, o ci aveva provato, e non è un caso che oggi l’influencer marketing sia un’arma politica usata e abusata, anche dai più forti. Si pensi alla strategia digitale della campagna di Biden che punterebbe a reclutare un esercito di influencer e creator indipendenti per raggiungere gli elettori più giovani, fondamentali nella sua elezione (vedi Editoriale 125).

Facebook al servizio dei governi

L’arrivo di Facebook in Vietnam è stato visto ai tempi come una vera rivoluzione. Per molti ancora oggi Facebook è sinonimo di Internet. Migliaia di utenti hanno pubblicato post contro il governo, facendo emergere verità nascoste dalla propaganda di stato. Dopo aver percepito il pericolo, il governo vietnamita ha iniziato a chiedere sempre maggiori restrizioni alla creatura di Zuckerberg. Nulla di strano perché, in tutto il mondo, i governi possono presentare richieste a Meta per rimuovere contenuti che considerati “illegali”. Richieste che vengono valutate sulla base delle linee guida specifiche per paese. Come racconta il Washington Post, ciò che colpisce è la generosità di Facebook nei confronti proprio del Vietnam: il colosso di Menlo Park ha censurato sistematicamente il dissenso eliminando profili che minacciavano il governo e ha predisposto un elenco di funzionari del Partito comunista “che non dovrebbero essere criticati”. Come se non bastasse, il governo dispone di un esercito digitale di troll sempre operativo, che prende il nome di Force 47. Rafael Frankel, direttore per le politiche pubbliche di Meta nel sud-est asiatico, ha detto di essere orgoglioso degli investimenti della società in Vietnam: “Il nostro obiettivo è garantire che il maggior numero possibile di vietnamiti sia in grado di utilizzare la nostra piattaforma per costruire una comunità ed esprimersi”. Facebook non è l’unica ad essere così permissiva. Dal 2019, Google, proprietaria di YouTube, ha accolto quasi tutte le 2.000 richieste del governo di rimuovere determinati contenuti. TikTok, invece, afferma di aver rimosso o limitato più di 300 post lo scorso anno per aver violato la legge locale.

Cambi al vertice per TikTok

Vanessa Pappas, Chief Operating Officer di TikTok, ha sorpreso l’azienda con l’annuncio delle sue dimissioni in una nota interna inviata ai dipendenti. Come riporta The Whashington Post, la dirigente, che ha svolto un ruolo chiave nella crescita e nello sviluppo di TikTok, ha deciso di lasciare l’azienda per dedicarsi a nuovi progetti imprenditoriali che si basano sulla blockchain. Pappas era la dirigente più anziana di TikTok negli Stati Uniti ed è stata CEO ad interim prima dell’arrivo di Shou Zi Chew. È stata inoltre annunciata l’assunzione di una veterana della Disney, Zenia Mucha, come capo comunicazione dell’azienda. Mucha è stata la portavoce di punta della Disney per oltre vent’anni, quando l’impero dei media ha divorato franchise come Marvel, Lucasfilm e Pixar e ha aperto il suo primo parco a tema in Cina. Le dimissioni di Pappas giungono in un momento in cui TikTok sta affrontando uno scontro con il governo americano che chiederebbe la vendita di TikTok da parte di ByteDance, nonostante le opposizioni del governo cinese. Non è ancora chiaro quale impatto potrebbe avere la partenza di Pappas sui negoziati tra TikTok e l’amministrazione Biden. Lo scorso marzo, in occasione di un meeting a Los Angeles, Pappas ha detto che alcuni dei sospetti del legislatore statunitense sul legame tra TikTok e il governo cinese erano basati sulla xenofobia.

Né con la Corte, né senza la Corte

Hanno rotto ogni rapporto con Buckingham Palace, che però resta la loro principale fonte di guadagno. Questa l’opinione del Guardian su Harry e Meghan a seguito dell’interruzione prematura del loro accordo con Spotify, che non è stata esattamente pacifica: Bill Simmons, Head of Podcast Innovation and Monetisation della piattaforma, li ha definiti “truffatori”. L’unico frutto di questa collaborazione è Archetypes, un podcast di dodici episodi presentato da Meghan dove viene analizzata una serie di stereotipi non lusinghieri nei confronti delle donne. Un format che, prosegue la testata, non è mai stato presentato o spiegato in maniera chiara e che, soprattutto, manca di un ingrediente fondamentale per il successo: la Royal Family. Sono, infatti, i conflitti con Buckingham Palace che hanno portato le memorie di Harry, Spare, a diventare il libro di non-fiction venduto più velocemente di sempre e il documentario sulla coppia targato Netflix a registrare record di streaming. Verso gli altri contenuti – libri per bambini, documentari su altre persone, ruoli di Chief Impact Officer per una società di coaching – l’interesse è poco o nullo. Tuttavia, prosegue il Guardian, anche continuare a battere questa strada potrebbe essere deleterio per il loro marchio personale di benessere mentale, che dà molta importanza all’andare avanti senza soffermarsi in maniera malsana sul passato. Un problema con il quale, come azienda, dovranno necessariamente misurarsi.

*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Per maggiori informazioni: www.storywordproject.com

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