Nell’epoca degli influencer cercasi voci libere

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Riportiamo di seguito l’articolo di Franco La Cecla, docente di Antropologia dei media alla Naba di Milano e membro di Voci per il Clima, pubblicato su Avvenire lo scorso 28 gennaio. Voci per il clima è un network di esperte ed esperti contro il greenwashing, nato per contrastare la disinformazione sul clima in Italia. Il network è promosso da Greenpeace Italia, ma i suoi membri operano in modo indipendente.

Si fa un gran parlare della sparizione degli intellettuali dalla scena dell’impegno. Mai come adesso ci sarebbe bisogno di voci libere, forti che facciano notare le crudeltà, le mostruosità, le incoerenze, lo scandalo del conformismo. Non è di moda essere scomodi, probabilmente nulla come la comparsa degli influencer ha cambiato le cose. Se sono i like che contano allora essere scomodi e andar controcorrente è controproducente. Se i social sono, direbbe Christopher Lasch, l’immagine più prossima al narcisismo della nostra società, allora non c’è campo per testimonianze diverse.

La malattia dell’influencer fa sì che lo stesso pensiero “woke”, ma anche quello semplicemente progressista, la stessa militanza di coloro che postano la propria indignazione venga triturata all’interno della macchina del consenso. I social hanno finito il lavoro iniziato dalla televisione “l’anything goes” che banalizza qualunque messaggio e lo riduce a un solo movimento, quello del secondo in più di attenzione sul telecomando o sullo scrolling. L’altro effetto, più pericoloso, è di credere che i social siano lo spazio vero e unico del discorso pubblico e che non esistano altri luoghi. Certo la criminalizzazione delle manifestazioni in piazza, la stretta repressiva sulla protesta fisica e non virtuale – quella che colpisce indiscriminatamente anche i più innocenti giovani ambientalisti e li tratta al pari di terroristi – è un ulteriore colpo alla democrazia.

La storia delle proteste non violente ci hanno però insegnato che esiste un altro tipo di testimonianza efficace che si basa sulla non cooperazione e la non collusione. Un intero magnifico libro di James Scott che ne racconta la storia ( Il dominio e l’arte della resistenza, Eleuthera). Rimangono gli spazi del proprio lavoro, quelli legati ad esempio all’esercizio normale del proprio mestiere e della propria arte. Mi riferisco in particolare a quel tipo di lavoro esercitato dagli artisti nel senso più ampio. Quando si parla di intellettuali si dimentica che gli artisti lo sono al pari. E qui andrebbe fatto un discorso a parte. Perché spesso l’arte, soprattutto l’arte contemporanea sembra tirarsi fuori dalle responsabilità politiche e ambientali. Intendiamoci: natura, indigeni, critica al capitalismo e perfino impegni per i palestinesi sono oggetti di molte tematiche care agli artisti contemporanei, insieme i temi del gender, della violenza domestica ecc.

Quello che manca però non sono i temi, ma è il “tirarsi fuori” dai compromessi. Spesso gli artisti, soprattutto in Italia, operano dentro a istituzioni, musei, eventi che non sempre sono innocenti. E anche coloro che potrebbero permettersi una testimonianza di libertà ci rinunziano per non essere invisi agli sponsor. Ho personalmente assistito in altri anni al gesto forte che Sciascia operò di fronte a un Salvo Lima che a Palermo stava per consegnargli un premio. In qual caso Sciascia arrivò sul palco, e poi all’offerta del premio dalle mani di Salvo Lima, gli girò le spalle e se ne andò. Si rovinò la carriera? Non credo. Oggi sarebbe bello vedere simili manifestazioni. Una grande attrice come Virginia Raffaele pubblicizza sui giornali in questi giorni la sponsorizzazione Eni del Festival di Sanremo. Sappiamo tutti che Eni fa parte di quel conglomerato di sorelle del petrolio che sta non solo frenando la transizione, ma in molti paesi opera perché non avvenga mai, rastrellando spesso le risorse per l’ambiente per continuare ad inquinare il pianeta e rovinare il futuro di tutti noi, dei nostri figli, nipoti e pronipoti.

Ora, non credo che la Raffaele abbia bisogno di allinearsi umilmente e non credo che rovinerebbe la sua carriera con una testimonianza e un rifiuto. Lo stesso vale per un personaggio di calibro ben più robusto, che ho avuto la fortuna di conoscere anni fa in occasione di un concorso per il piano regolatore di Tirana dove ero giurato – e dove votai contro la volontà dell’allora sindaco: Edi Rama. È di lui che oggi vorrei dire: nel mondo dell’arte contemporanea rappresenta quella scuola di artisti albanesi come Adrian Paci, Karol Rama e altri che danno molto lustro al loro paese. Ecco da uno come Edi Rama artista ci si aspetterebbe
un’etica, un rispetto per il proprio ruolo di artista, se l’arte è testimonianza scomoda della difficoltà dei tempi. E invece Edi Rama è il fautore, corresponsabile dei centri di detenzione per emigrati voluti dal nostro governo e rivelatesi un fallimento. Insomma, caro Edi, un passo indietro non ti rovinerebbe la carriera, ma ti salverebbe come artista.

I casi simili sono tantissimi, soprattutto gli artisti contemporanei, ma anche i designer, gli stilisti della moda, potrebbero avere un peso enorme in questo momento dove il silenzio degli intellettuali è assordante e somiglia sempre più a una forma di collusione, quella che una volta eravamo abituati a chiamare “omertà”. Chiedo troppo, si, chiedo molto perché i
tempi lo richiedono. Oggi non ci si può più tirare indietro rispetto a massacri, catastrofi provocate, stragi di bambini e distruzioni di risorse. Tutto è estremamente urgente e vale la pena di rovinarsi la carriera per non perdere la faccia (non quella che appare sui social).

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