Roghi di rifiuti.

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Selargius, località Sa Muxiurida, incendio di rifiuti (giugno 2016)

Pronuncia di rilevante interesse da parte della Suprema Corte in tema di roghi di rifiuti.

La sentenza Corte cass., Sez. III, 18 dicembre 2023, n. 50309 ha delineato autorevolmente i limiti del delitto di combustione illecita di rifiuti previsto dall’art. 256 bis del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i., che sanziona con pesanti pene il rogo di “rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato”.

L’ipotesi penalmente sanzionata si riferisce alle condotte illecite delineate dagli artt. 255, comma 1°, e 256, comma 2°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. e non può esser estesa – per il principio di tassatività sussistente in materia penale – ad altre condotte comprendenti rifiuti oggetto di gestioni autorizzate o comunque lecite.

Ricorda la Suprema Corte che “l’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato potrebbe sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa”.

Senz’altro si tratta di una delle pratiche illecite più inquinanti per aria, suoli e acque.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 15 gennaio 2024

Cass. Sez. III n. 50309 del 18 dicembre 2023 (UP 30 nov 2023)
Pres. Galterio Rel. Galanti Ric. Savoca
Ecodelitti. Combustione illecita di rifiuti.

Il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – che è reato di pericolo concreto e di condotta, per la cui consumazione è irrilevante la verifica del danno all’ambiente – punisce con l’elevata pena ivi prevista, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la combustione illecita dei soli «rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato». Il riferimento, dunque, è alle condotte richiamate nell’art. 255, comma 1 (e 256, comma 2) d.lgs. 152/2006 e, per il principio di tassatività, non può estendersi a rifiuti che siano oggetto di forme di gestione autorizzata o comunque lecita. L’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato potrebbe sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa.


RITENUTO IN FATTO


1. Con sentenza del 14/02/2023, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del GIP presso il Tribunale di Termini Imerese, esclusa l’aggravante di cui all’articolo 256-bis, comma 4, della norma sanzionatoria, rideterminava la pena inflitta a Francesco Savoca e Francesco Maggiore in mesi 10 e giorni venti di reclusione per il reato di cui all’articolo 256-bis d. lgs. 152/2006. Reato acc.to in Bagheria il 01/09/2019.

2. Avverso tale ordinanza gli imputati propongono, tramite i rispettivi difensori di fiducia, ricorso per cassazione.

3. Il Ricorso di Francesco Savoca
Con il primo e unico motivo, lamenta vizio di motivazione in riferimento alla censura, sollevata in grado di appello, secondo cui quelli abbruciati non erano rifiuti, né erano depositati in modo incontrollato, ma erano «beni» di proprietà dell’imputato, che ha effettuato un recupero del rame contenuto nei cavi bruciandone la guaina in plastica in modo rudimentale, processo altrimenti molto costoso.

4. Il ricorso di Francesco Maggiore.
Con il primo e unico motivo, lamenta violazione di legge in riferimento agli articoli 256-bis d. lgs. 152/2006, 99 e 110 cod. pen.
In primo luogo, contesta la mancanza del dolo richiesto dalla norma.
In secondo luogo, evidenzia come i cavi non fossero abbandonati, ma custoditi all’interno di un contenitore.
Inoltre, per il modesto quantitativo, non si è mai verificato un pericolo di danno per l’ambiente.
Ribadisce poi che sussistevano i presupposti per l’applicazione sia dell’articolo 131-bis che dell’articolo 62-bis cod. pen..

5. In data 12/09/2023 l’Avv. Filippo Sabbia, del foro di Palermo, depositava memoria per Francesco Maggiore con cui insisteva per l’accoglimento del ricorso.

6. In data 28/09/2023 l’Avv. Luigi Campagnolo, del foro di Palermo, depositava memoria per Francesco Savoca con cui insisteva per l’accoglimento del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. I ricorsi sono infondati.
Preliminarmente, posto che tali premesse concernono entrambi i ricorsi, il Collegio evidenzia come il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – che è reato di pericolo concreto e di condotta, per la cui consumazione è irrilevante la verifica del danno all’ambiente (Sez. 3, n. 16346 dell’11/01/2021, Baldi) – punisce con l’elevata pena ivi prevista, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la combustione illecita dei soli «rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato» (cfr., in motivazione, Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Sancilles, Rv. 271359).
Il riferimento, dunque, è alle condotte richiamate nell’art. 255, comma 1 (e 256, comma 2) d.lgs. 152/2006 e, per il principio di tassatività, non può estendersi a rifiuti che siano oggetto di forme di gestione autorizzata o comunque lecita.
Ancora, la Corte ha ritenuto (Sez. 3, n. 38021 del 30/05/2019, Viasu) che l’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato potrebbe sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa.

2. Ciò premesso, il ricorso di Francesco Savoca è infondato.
E’ infatti indubbio che i cavi di rame inguainati costituissero, in ragione delle circostanze di tempo e di luogo del fatto, dei rifiuti speciali non pericolosi, sussumibili nel codice CER 170411 (Cavi, diversi da quelli di cui alla voce 170410, ossia cavi contenenti sostanze bituminose pericolose) ovvero CER 160216 (Componenti rimossi da apparecchiature fuori uso diversi da quelli – pericolosi – di cui alla voce 160215).
Incontestata, poi, è la condotta dei due imputati (del resto ammessa nel ricorso del Savoca): i due, infatti, stavano separando mediante abbruciamento il rame contenuto nei cavi (che ha un valore commerciale) dal loro rivestimento in gomma, in tal modo ponendo in essere una condotta di recupero del metallo (e di smaltimento della guaina) al termine della quale esso avrebbe perso la qualifica di rifiuto, ai sensi del Regolamento 715/2013 (recante i criteri che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio); si tratta di un caso di c.d. “end of waste” ai sensi dell’articolo 184-ter d. lgs. n. 152/2006.
Il Collegio evidenzia che, quando tale attività di recupero ha per oggetto modesti quantitativi, troverebbe applicazione il D.M. 5/02/1998, il quale prevede specifici obblighi in capo recupero autorizzato in regime «semplificato» ex artt. 214 e 216, il quale prevede che l’operazione di recupero permessa per i cavi di rame è (punto 5.8.3) la messa in riserva di rifiuti [R13] con lavorazione meccanica (cesoiatura, triturazione, separazione magnetica, vibrovagliatura e separazione densimetrica) per asportazione del rivestimento; macinazione e granulazione della gomma e della frazione plastica, granulazione della frazione metallica per sottoporla all’operazione di recupero nell’industria metallurgica [R4] e recupero della frazione plastica e in gomma nell’industria delle materie plastiche [R3]; certamente, non l’abbruciamento a terra.
Premesso che l’attività in corso era di smaltimento e recupero di rifiuti, circostanza dirimente è costituita dall’essere gli stessi abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato, oppure essere di proprietà del ricorrente (con conseguente esclusione dell’abbandono). Sul punto, l’affermazione del ricorrente, secondo cui i cavi erano di sua proprietà, è del tutto apodittica e indimostrata, non avendo lo stesso dedotto nulla circa la provenienza degli stessi.
In proposito il Collegio rammenta che la giurisprudenza consolidata della Corte (v. da ultimo Sez. 3, n. 27148 del 17/05/2023, Burato, Rv. 284735), ha precisato che poiché le norme relative al c.d. «end of waste» sono norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, «l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione (Sez. 3, n. 38950 del 26/06/2017, Roncada, n.m.; Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco, Rv. 272428 – 01; Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336 – 01; Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129 – 01; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385 – 01; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, n.m.; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504 – 01).
Tale giurisprudenza è una applicazione dell’indirizzo consolidato secondo cui (v. Sez. 3^, n. 20410 del 08/02/2018 Rv. 273221 – 01 Boccaccio) il principio di inversione dell’onere della prova «specificamente riferito al deposito temporaneo, è peraltro applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali».
In tal senso, già Sez. 3, sentenza n. 47262 dell’8/09/2016, Marinelli, n.m., aveva precisato che il principio dell’inversione dell’onere della prova corrisponde ad un «principio generale già applicato in giurisprudenza: in tema di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 152/2006 (cfr. Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini), di deposito temporaneo di rifiuti (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo), di terre e rocce da scavo (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014, Aloisio), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, prevista dall’art. 258 comma 15 del d. lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali (Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone)». Il principio è stato successivamente ribadito anche da Sez. 3, n. 3598 del 23/10/2018, dep. 2019, Fortuna, n.m..
Nel caso di specie, non avendo il ricorrente nulla dedotto al fine di escludere la natura di rifiuto ovvero giustificare la provenienza del medesimo, il Collegio ritiene corretta l’argomentazione dei giudici di merito secondo cui si trattava, nel caso di specie, di rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato (verosimilmente raccolti dagli imputati al fine di recuperarne la componente metallica pregiata).

    3. Il ricorso di Francesco Maggiore.
3.1. Il motivo di ricorso relativo alla lamentata violazione dell’art. 256-bis cod. pen., è infondato.
Inammissibile è, in primo luogo, la censura secondo cui i rifiuti non fossero abbandonati o depositati in modo incontrollato, essendo gli stessi custoditi in un secchio di plastica.
Il Collegio, in proposito, evidenzia che la sentenza di primo grado, emessa in esito a rito abbreviato e richiamata anche dalla pronuncia di appello, precisa che dall’informativa di P.G. emerge che i due imputati avevano bruciato – al momento dell’intervento – circa 20 kg. di cavi in rame, e che quest’ultimo (ossia il metallo recuperato), e non i cavi, fosse custodito in un secchio.
L’allegazione difensiva, pertanto, è meramente fattuale e non può costituire oggetto di scrutinio di legittimità in quanto meramente fattuale.
3.2. In secondo luogo, quanto alla asserita mancanza dell’elemento soggettivo del reato, il motivo è in parte qua inammissibile in quanto lamentato ma non coltivato, essendo di solare evidenza che i motivi di ricorso impingono esclusivamente sull’elemento oggettivo del reato.
3.3. Le censure concernenti la mancata applicazione dell’articolo 131-bis cod. pen. e l’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche in prevalenza, sono inammissibili.
3.3.1. Quanto al primo aspetto, il ricorrente ha infatti denunciato vizio di violazione di legge in riferimento alla (sola) norma incriminatrice.
Nella successiva esplicazione del motivo, inopinatamente, affronta l’aspetto relativo alla particolare tenuità del fatto, ritenendo (pag. 6 del ricorso, anche se non impaginato) che se la Corte territoriale avesse «correttamente valutato» i motivi di appello, il giudicante sarebbe dovuto pervenire «ad una valutazione ben diversa», così evidentemente spostando il fuoco della censura verso un vizio di motivazione, non dedotto.
Il motivo è pertanto, in parte qua, inammissibile per aspecificità.
3.3.2. Quanto alle circostanze generiche, il motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte territoriale ha già applicato le attenuanti nella loro massima estensione (e ovviamente in prevalenza): partendo da una pena base di anni due di reclusione ha infatti operato una riduzione di otto mesi, pari ad un terzo della pena (pag. 5).
3.3.3. Manifestamente infondata, stante quanto visto al par. 1, è poi la parte di doglianze attinente alla mancanza di danno all’ambiente, trattandosi di reato di pericolo.


P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 30/11/2023.

Roma, Corte di cassazione

(foto per conto GrIG, S.D., archivio GrIG)

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