[CONTRIBUTO] La tragedia di Crotone: i meno colpevoli di tutti sono gli scafisti… (ita – eng)

1 year ago 303

La tragedia di Crotone:

i meno colpevoli di tutti sono gli scafisti…

(ita – eng)

Non c’era bisogno della testimonianza del medico e soccorritore calabrese Orlando Amodeo per comprendere che il governo Meloni, e per esso il ministro Piantedosi, ha voluto l’orrenda strage di Crotone. Benvenuto comunque, tra moltitudini di quacquaraqua, un autentico essere umano capace di spiattellare in tv una verità elementare: per lo stato era possibile, assolutamente possibile, salvarli.

Chapeau anche al miserabile ministro che ha rivendicato apertamente la necessità di questa e altre mattanze: “Salvarli, non salvarli… il problema è non farli partire”. Un nemico dichiarato degli emigranti (e nostro), perfetta incarnazione del razzismo di stato, lo stato democratico post-fascista.

Insopportabile, invece, è lo scandalo delle mammolette di “sinistra” o pentastellate che hanno già dimenticato i decreti Minniti e i decreti Salvini, da loro votati e lodati (ricordate il Conte-1 sorridente con ai suoi fianchi Salvini e Di Maio?), che hanno tracciato il solco per i decreti Piantedosi.

Doppiamente insopportabile, per il suo cinismo, lo scaricabarile di governo e Quirinale, un tandem molto affiatato, sull’Unione europea che dovrebbe fare questo e quello. Sanno a memoria che la militarizzazione delle politiche migratorie e la esternalizzazione delle frontiere oggi invocate come la soluzione “condivisa” da adottare per “risolvere” il problema delle migrazioni verso l’Europa sono da tempo la politica ufficiale dell’Unione europea – falsissima soluzione, capace solo di produrre indebitamento, schiavitù, tortura, indicibili sofferenze, morte. Una politica che da molto tempo noi internazionalisti rivoluzionari abbiamo definito di guerra agli emigranti e agli immigrati, e denunciato come parte costitutiva di una complessiva guerra di classe ai lavoratori. Con il tentativo, anche, di arruolare gli sfruttati autoctoni contro quelli costretti, costi quel che costi, a immigrare qui dal vecchio e nuovo colonialismo.

Una questione-chiave per la rinascita del movimento proletario e la lotta al capitalismo, ancor oggi messa in secondo piano in molti ambienti militanti.

The tragedy of Crotone: the least guilty of all are the smugglers… There was no need for the testimony of the Calabrian doctor and rescuer Orlando Amodeo to understand that the Meloni government, and for it Minister Piantedosi, wanted the horrendous massacre of Crotone. Welcome, however, among the multitudes of Quacquaraqua, an authentic human being capable of blurting out an elementary truth on TV: it was possible, absolutely possible, for the state to save them. Chapeau also to the miserable minister who openly claimed the need for this and other massacres: “Save them, don’t save them… the problem is not to get them to leave”. A declared enemy of emigrants (and ours), the perfect embodiment of state racism, the post-fascist democratic state. Unbearable, on the other hand, is the scandal of the “left” or pentastellate violets who have already forgotten the Minniti decrees and the Salvini decrees, voted for and praised by them (do you remember the smiling Conte-1 with Salvini and Di Maio at his sides?), who paved the way for the Piantedosi decrees. Doubly unbearable, for his cynicism, the passing of the buck of government and Quirinale, a very close-knit tandem, on the European Union which should do this and that. They know very well that the militarization of migration policies and the externalization of borders invoked today as the “shared” solution to be adopted to “solve” the problem of migration to Europe, have long been the official policy of the European Union – a very false solution, capable only of producing debt, slavery, torture, terrible suffering, death. A policy that we revolutionary internationalists have long defined as war against emigrants and immigrants, and denounced as a constitutive part of an overall class war against workers. With the attempt, also, to enlist the exploited natives against those forced, whatever the cost, to immigrate here by the old and new colonialism. A key issue for the rebirth of the proletarian movement and the fight against capitalism, still today overshadowed in many militant circles.

Riportiamo qui quanto abbiamo scritto nel n. 3 del Cuneo rosso a proposito dell’Unione europea. Oggi come ieri (Red.)

Contro l’Unione europea e il razzismo democratico

Intestare la guerra agli emigranti e agli immigrati alle sole destre “sovraniste” e “populiste”, e in Italia al solo governo Lega-Cinquestelle, sarebbe un falso clamoroso. Infatti, fin dai suoi primi passi, è stata l’Unione europea in quanto tale ad adottare questa politica e a progressivamente radicalizzarla ed estenderla oltre le frontiere europee. Ed è tuttora una coalizione di forze liberal-democratiche e social-democratiche a guidarla, con le destre più aggressive a fare da pungolo minoritario. E dunque la consegna dell’anti-razzismo coerente, di classe, non può che essere: contro l’Unione europea e il suo razzismo istituzionale, di cui quello dei “sovran-populisti” è figlio ed erede legittimo (Pillon sta’ tranquillo, è figlio legittimo, non naturale!).

L’inizio: Schengen (1985)

L’Unione europea è nata ufficialmente con il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, ma la sua nascita è stata per più aspetti anticipata dall’accordo di Schengen del 14 giugno 1985, concluso tra i paesi del Benelux (Belgio, Olanda, Lussemburgo), la Germania federale e la Francia. Questo accordo avviava la libera circolazione delle merci (cosa di importanza primaria nell’accordo) e dei cittadini appartenenti ai 5 stati firmatari, ma fissava al tempo stesso un principio di sospetto statale, istituzionale nei confronti degli immigrati, identificati – manco a dirlo – nella figura degli immigrati “clandestini”: la minaccia che viene dall’esterno e diventa il nemico interno, da tenere sotto controllo e sorveglianza perché fonte di insicurezza e criminalità. Così, alla lettera. Ecco gli articoli 6 e 7 a confronto:

Art. 6 – Le Parti adottano tra loro, fatta salva l’applicazione di intese più favorevoli, le misure necessarie atte ad agevolare la circolazione dei cittadini degli Stati membri delle Comunità europee residenti nei Comuni che si trovano alle frontiere comuni, per consentire loro di attraversare tali frontiere al di fuori dei punti di passaggio autorizzati e al di fuori degli orari di apertura dei posti di controllo. (…)

Art. 7 – Le Parti si adoperano per riavvicinare nei tempi più brevi le proprie politiche in materia di visti al fine di evitare le conseguenze negative che possono risultare da un alleggerimento dei controlli alle frontiere comuni in materia di [attenti] immigrazione e sicurezza. Esse adottano, possibilmente entro il 1° gennaio 1986, le disposizioni necessarie al fine di applicare le proprie procedure relative al rilascio dei visti e all’ammissione sul proprio territorio, tenendo conto della necessità di garantire la protezione dell’insieme dei territori dei 5 Stati dall’immigrazione clandestina e da quelle attività che potrebbero minacciare la sicurezza. [c. n.]

Nel successivo art. 9 si specificano i terreni privilegiati della cooperazione tra le polizie, e si mette in un solo mazzo “l’ingresso e il soggiorno irregolare di persone” con il “traffico illecito di stupefacenti e di armi”, la frode fiscale e doganale e il contrabbando, tanto per chiarire l’alto livello di pericolosità sociale degli immigrati “irregolari” e, attraverso questa figura, degli immigrati in genere. Questo schema originario di inquadramento della “questione migratoria” è rimasto il punto di riferimento dei passi successivi dell’UE e dei singoli stati, scanditi dai principali eventi esterni e interni all’Europa.

Cade il muro di Berlino: scattano le misure anti-slavi.

Di lì a pochi anni il crollo dei regimi del “socialismo reale” e la dissoluzione, provocata in larga parte dall’esterno, della ex-Jugoslavia provocano un forte movimento migratorio dai paesi dell’Est Europa (fino a Ucraina e Russia) e dai Balcani verso la Germania e gli altri paesi dell’Europa occidentale, Italia per prima. Le barriere legali e poliziesche che erano state apprestate vengono scavalcate facilmente da masse di emigranti. Per fronteggiare il “pericolo” degli immigrati slavi e balcanici, è scattata una sfilza di campagne inferiorizzanti e criminalizzanti nei loro confronti, che hanno preso di mira, a seconda dei paesi e dei momenti, differenti nazionalità nel loro complesso – così, a pochi anni da Schengen è venuta a cadere l’ipocrita distinzione tra “clandestini” e regolari, alla quale comunque l’UE e i singoli stati non hanno rinunciato mai del tutto come utile mezzo di propaganda.

E l’attività di fronteggiamento del “pericolo” non si è limitata alle campagne di stampa. L’Italia, la più direttamente “minacciata” in Europa, è passatà in pochi anni alle vie di fatto: il 28 marzo 1997 la nave militare Sibilla sperona la carretta del mare Kater i Rades e inabissa nel mar Adriatico 105 albanesi, molti donne e bambini, che fuggivano dai moti scoppiati in Albania in seguito alla maxi-truffa delle cosiddette piramidi, ordita proprio in Italia. Presidente del consiglio? Prodi. Ministro degli interni? L’indimenticabile Napolitano, lo stesso che ha varato i primi centri di detenzione amministrativa per gli immigrati. Ministro della Difesa: Andreatta. Ministro degli esteri: Dini. Il gotha del Pd (allora Pds) e dei famigerati “tecnici”, un pool di ultra-europeisti intoccabili per l’UE, di cui Prodi è stato a capo per 5 anni (1999-2004), proprio all’indomani dell’affondamento della Kater i Rades. Premio al merito! Nasce allora, ben 22 anni fa, con un governo di centro-sinistra, la lunghissima stagione dei pattugliamenti navali e dei respingimenti in mare, con il blocco navale italiano davanti alle coste albanesi. E l’occasione fu buona per inviare in Albania un contingente militare in sostegno al presidente di allora Berisha, implicato nella maxi-truffa. Il governo dei “padri nobili” (?) del finto buonismo di marca Pd negò allora ogni responsabilità per quella “disgrazia”. Negò perfino di aver fatto un blocco navale (meno disonesta la presidente della Camera Pivetti che chiese a gran voce che gli albanesi fossero gettati a mare). Quindi, perché scandalizzarsi quando Salvini afferma che nel Mediterraneo ormai non muore più nessuno?

Neppure tragedie come quella della Kater i Rades, però, e neppure il progressivo ingresso dei paesi dell’Est nella Unione europea che ha fatto diventare i loro cittadini automaticamente comunitari, sono serviti ad impedire il ripetersi, all’occorrenza, dello spaccio di massadi stereotipi odiosi contro i lavoratori immigrati dall’Est (quelli appartenenti a popoli che Hitler definì “popoli concime”) – uno spaccio avvenuto sempre sotto la regia degli stati occidentali dell’Unione e nel complice silenzio di Bruxelles. Del resto l’insieme dell’Europa è stata coinvolta nell’aggressione alla mini-Jugoslavia e nella sua distruzione. Né si è trattato solo di albanesi e serbi. Anche i tanto coccolati polacchi non se la sono vista bella, più di recente. Nella Gran Bretagna di Cameron nel 2014 gli immigrati polacchi sono arrivati al punto da ventilare un vero e proprio sciopero contro le sistematiche discriminazioni e violenze ai loro danni. Questo, mentre il premier britannico andava in giro per l’Europa a sostenere la necessità di limitare i movimenti dei cittadini comunitari e la stampa aizzava la gente contro i polacchi che rubano il lavoro e approfittano del welfare – con l’effetto di avere ben 585 persone arrestate in un solo anno (2013) per avere compiuto atti di “violenza razziale” contro un polacco o una polacca.È davvero notevole che, a vent’anni di Maastricht, non è più sufficiente essere cittadini comunitari per essere al riparo dal razzismo di stato europeo. L’appartenenza giuridico-politica all’UEnon può annullare – davanti ai discendenti dei colonialististorici – la disuguaglianza (naturale?) “di razza” e di nazione. E in questa sua richiesta, Cameron non è restato certo da solo.

Guerre a Iraq e Afghanistan: trionfa l’islamofobìa.

Le discriminazioni e gli attacchi subìti nell’UE dagli immigrati provienienti dall’Est sono rose e fiori se li si raffronta con quelli subìti dagli immigrati e dalle immigrate provenienti dai paesi arabi e di tradizioni islamiche. Lo specialissimo trattamento che l’Unione europea e i singoli stati gli hanno riservato, sempre nel rispetto dei sacri principi democratici, è stato giustificato prima dall’essere in guerra con paesi arabi e islamici, poi con gli attentati che da queste guerre neo-coloniali sono derivati. A questo va aggiunto che le popolazioni provenienti dal mondo arabo-islamico sono la componente più diffusa e radicata dell’immigrazione extra-europea, la più organizzata e quella che vive con maggiore intensità la dimensione collettiva.

Per l’Unione europea, gli stati europei e le imprese europee, invece, l’ideale è avere a disposizione gastarbeiter, lavoratori e lavoratrici “migranti“, singolisenza famiglia (e, se possibile, senza nessun legame sociale che dia loro forza), meglio se con contratti e condizioni da coolies, e meglio ancora se sans papiers senza diritti. Senonché l’immigrazione araba ed ‘islamica’ è andata, nell’ultimo secolo ed in particolare negli ultimi trenta-quaranta anni, in direzione contraria a questi desideri degli stati, dei governi, delle imprese europee, che pretendono di avere a propria disposizione forza-lavoro usa-e-getta, il meno radicata possibile, perché più radicati e stanziali sono gli immigrati, più la loro forza-lavoro costa, più si intreccia con i lavoratori autoctoni.

Inoltre, questa immigrazione è quella che si è auto-organizzata meglio di altre per rivendicare i propri diritti, non solo in quanto immigrati, anche in quanto lavoratori e in quanto cittadini; che ha dato vita a una molteplicità di strutture associative; che è stata ed è tutt’oggi parte attiva, a livello di base, degli organismi sindacali; quella che ha protestato nei modi più accesi quando si è trattato di sanzionare comportamenti intollerabili delle polizie dei diversi stati. E ha la colpa di avere fatto eco in Europa alle lotte contro il vecchio e contro il nuovo colonialismo, che si sono sviluppate nei propri paesi di origine, di avere disapprovato le guerre all’Iraq e all’Afghanistan scatenate contro il loro mondo di origine dai “volonterosi” gangster imperialisti. Insomma, pur con le diversità di nazione, lingua, cultura e religione che le contraddistinguono, le popolazioni immigrate arabe e islamiche costituiscono, nell’insieme, il nocciolo duro dell’immigrazione in Europa e in Italia. L’offensiva statale, governativa, padronale, mediatica contro di esse punta a isolarle, dividerle al loro interno, fiaccarle, privarle dei (limitati) diritti acquisiti, chiuderle in ghetti iper-sorvegliati da imam di stato, per fare di esse un esercito di riserva dentro il proletariato immigrato. E non vi è dubbio che ci sia stato e ci sia un coordinamento, una regìa istituzionale europea di queste politiche discriminatorie e razziste. L’industria dell’islamofobìa è una macchina da guerra protetta in ogni suo ingranaggio dai poteri forti europei.

Se nel caso degli immigrati slavi e balcanici era caduta la distinzione originaria tra “clandestini” e regolari, in questo caso è notevole che lo stato di emergenza decretato contro i “terroristi islamici” sia stato usato più volte per limitare le libertà anche degli europei autoctoni. Ad esempio in Francia nel novembre 2015 è stato usato per attaccare i manifestanti anti-COP 21, vietandogli di dimostrare contro i responsabili della catastrofe ambientale che incombe sul mondo. E ovunque, come avviene di norma in tempi di guerra, in nome della guerra da combattere all’islam che ‘ci minaccia’ e ‘vuole invaderci’, i governi e gli stati hanno chiamato all’unità nazionale, alla fine dei conflitti sociali e hanno preso misure pratiche per rendere gli scioperi e le lotte più difficili. Sempre nella stessa circostanza la Francia ha avvertito il Consiglio di Europa che per un certo periodo prevedeva di “derogare ad alcuni diritti garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo”, in materia di perquisizioni (anche di sedi di associazioni composte solo da cittadini francesi), di acquisizione di dati informatici, di volantinaggi, di obblighi a presentarsi nei commissariati, etc. Non a caso la legge sullo stato di emergenza applicata da Hollande e Valls è quella varata nel 1955 ai tempi della guerra contro il popolo algerino, la stessa riesumata da Sarkozy nel 2005 ai tempi della rivolta dei giovani figli di immigrati dei quartieri popolari delle grandi città della Francia… Tutto quadra.

La Fortress Europe esternalizza le sue frontiere.

L’edificazione di una Fortress Europe, la fortezza-Europa,munita di ogni sorta di mezzo di difesa contro i nemici interni (gli immigrati) ed esterni (gli immigranti), già prefigurata nell’accordo di Schengen, ha portato al continuo rafforzamento della cooperazione tra le polizie e i servizi dei diversi stati e soprattutto ha reso, nel tempo, sempre più complicato entrare in Europa legalmente. Con lodevole franchezza il francese Le Monde (9-10 giugno 2002) riconosceva che “l’ingresso illegale è la sola opzione che si offre ai candidati all’immigrazione [in Europa], se si eccettua il ricongiungimento famigliare e la richiesta di asilo”. E qualche tempo dopo un altissimo funzionario di polizia italiano, A. Pansa, ammetteva che “il sistema produttivo italiano preferisce spesso i clandestini: lavoratori meno costosi e più flessibili. (…) la clandestinità o il permesso di soggiorno per motivi di lavoro surrettizi sono requisiti preferenziali per accedere a un mondo del lavoro che assume preferibilmente senza contratto e senza garanzie1. Sicché non è arbitrario concludere che la politica di rafforzamento delle frontiere è una politica di produzione intenzionale di irregolari, di emigranti forzati dagli statie dall’Unione europeaad essere “clandestini”, almeno per il tratto iniziale del proprio percorso migratorio. Del resto la legge Bossi-Fini, prevedendo che possano entrare in modo regolare in Italia solo gli immigrati che hanno un contratto di lavoro già firmato in mano (chi ci riesce?), spingeva nella medesima direzione. E se tutti questi dispositivi repressivi e restrittivi non sono riusciti a evitare una crescita complessiva della popolazione immigrata regolare stanziata stabilmente sul territorio europeo, lo si deve solo alla resistenza, anche individuale, e alle lotte dei proletari immigrati e dei sans papiers.

L’altra faccia di questa politica contro gli immigrati dell’Unione e degli stati europei è fin dal 1992, con maggior aggressività dal 2005 e una forte accelerazione dal 2015 (con il summit UE-Africa della Valletta), la politica di esternalizzazione delle frontiere. Accordi con i paesi vicini (Turchia, Libia, Egitto) o meno vicini (Niger, Suda, Mali, Mauritania) perché blindino le loro frontiere, accordi per le deportazioni, formazione delle polizie di frontiera, sviluppo di sistemi biometrici di controllo, “dono” di elicotteri, pattugliatori e altri mezzi di sorveglianza per rafforzare al massimo non la chiusura ermetica delle frontiere, bensì il filtro alle frontiere. E per assicurarsi che emigrare sia più costoso, pericoloso e soggetto al controllo delle organizzazioni “illegali” specializzate nell’attraversamento delle frontiere. Gli effetti? Li descrivono i redattori del rapporto Expanding the Fortress:

«Chiudere un percorso migratorio non equivale a fermare le persone che fuggono. Conduce, nella maggior parte dei casi, a spingere gli emigranti verso altri percorsi. Questi percorsi sono spesso più pericolosi e il risultato è una crescita del numero dei morti. La percentuale di emigranti morti sul percorso verso l’Europa attraverso il Mediterraneo è stata cinque volte più alta nel 2017 rispetto al 2015 [il 2017 è l’anno di Minniti – n.]. Tutto ciò riflette gli accordi con la Turchia e la chiusura del percorso verso l’Europa attraverso i Balcani, ed una percentuale più alta di persone costrette a battere la pericolosa via del Mediterraneo centrale dalla Libia all’Italia nel 2016 e 2017.

«Nessuno però si prende la briga di tenere conto, e contare, le persone che muoiono lungo i tragitti che le portano verso i punti da cui si può attraversare il Mediterraneo. Si stima che siano molti di più gli emigranti forzati che muoiono nel deserto», forse, secondo un funzionario Oim, il doppio di quelli che muoiono nel Mediterraneo2.

E i trafficanti che si affollano alle frontiere, sfruttando l’incremento del rischio (per loro, in realtà, molto relativo), elevano i costi dell’attraversamento, sicché si può costruire una facile, e macabra, equazione: esternalizzazione delle frontiere=incremento dei morti+incremento dell’incatenamento per debiti dei sopravvissuti. Altrettanto ovvio è che la politica di esternalizzazione delle frontiere “ha un effetto esattamente opposto rispetto allo scopo dichiarato: rafforza anziché indebolisce il modello di affari dei gruppi criminali di trafficanti”. E il pericolo non viene solo da queste bande, viene anche “dalle polizie e dai militari dei paesi che gli emigranti debbono attraversare per raggiungere l’Europa”3. Viva l’Europa! L’Unione europea, che ha messo come valori assolutamente irrinunciabili della sua missione civilizzatrice “la promozione e la protezione dei diritti umani, della democrazia e del dominio della legge alla scala mondiale”. E non stiamo qui ad indugiare sui loschi affari che questa politica assicura a grandissime imprese del settore bellico quali Leonardo, Thales, Selex e Intermarine (entrambe italiane), Airbus, Safran, Rheinmetall, Civipol, Veridos, Bundesdruckerei, e le società di gestione dei kampi, a cominciare dalla gigantesca G4S statunitense, che è presente in 125 paesi e gestisce 675.000 dipendenti4. E neppure sul veloce potenziamento di Frontex, l’agenzia europea che si occupa delle frontiere impegnata a concludere accordi su accordi in Africa, nel mondo arabo e nell’area di influenza russa. Basterà dire che la sola attività di controllo delle frontiere è un goloso affare da oltre 20 miliardi di euro. La guerra agli emigranti e agli immigrati è un buon investimento: si uccide, si incarcera, si tortura, e si fanno montagne di profitti.

La “governance” delle migrazioni fa evaporare i diritti degli emigranti.

Il quadro dell’azione bellica europea in fatto di migrazioni non sarebbe completo se non dicessimo qualcosa sul complicatissimo (e semi-segreto) processo che va sotto il nome di governance delle migrazioni, cioè sul tentativo dei pubblici poteri europei, a cominciare da quelli centrali, di mettere sotto controllo, di riuscire a gestire i movimenti migratori. Ciò che si scopre sulle tracce di uno studio di I. Gjergji è che questo tentativo avviene sempre più all’insegna dell’informalità, lontano, sempre più lontano, dal riferimento a principi, trattati, e normative internazionalmente fissati e riconosciuti. La via preferita in tempi recenti è quella degli accordi, delle intese e, meglio ancora, delle relazioni bilaterali che possono prevedere anche semplici dichiarazioni politiche congiunte, e sia l’informalità crescente, sia la bilateralità asimmetrica (perché uno dei contraenti è molto più forte dell’altro) hanno come conseguenza l’incertezza dei diritti degli emigranti/immigrati. Tutto si svolge ormai sotto il segno dell’emergenza permanente, della crescente rilevanza dei poteri privati o semi-privati (indicativa è l’espansione della presenza e dei poteri dell’Oim, organizzazione che ha assunto le vesti di un’agenzia globale per il lavoro interinale), della adozione di misure just in time per far sì che i movimenti migratori corrispondano in massimo grado alle variabili aspettative e necessità delle imprese. Gira e rigira in un vero e proprio ginepraio di norme, semi-norme, circolari che contano più delle leggi e dei trattati, questo lavorìo istituzionale dell’Unione europea e dei singoli stati si concentra sull’obiettivo di sostituire l’immigrazione definitiva con quella temporanea e circolare. E mette capo, sistematicamente (c’è del metodo in questo caos), alla riduzione delle già scarse tutele esistenti per i richiedenti asilo, i rifugiati e, ancor più, per gli emigranti definiti “economici”. In un contesto del genere la prassi in espansione delle riunioni a porte chiuse ben si accorda con la realtà di un sottomondo in cui, invece dei vecchi parlamenti e dei governi, a decidere volta a volta della sorte dei lavoratori emigrati/immigrati sono singoli ministri, alti funzionari e/o soggetti privati con loro in rapporti tutt’altro che trasparenti. Del resto nulla è più opaco e sfuggente di questo “mondo”. La sola cosa certa è l’accrescimento dell’incertezza del diritto, l’evaporare dei già scarni meccanismi di garanzia finora esistenti per chi emigra – fino ad arrivare all’estremo della identificazione “a occhio” delle persone meritevoli dello status di rifugiato5.

Il mondo di Minniti è quello di Salvini.

Venne poi il turno di Minniti su una via di negazione sempre più radicale dei bisogni e delle aspettative degli immigrati già tracciata dalle istituzioni europee nei precedenti decenni sul solco del razzismo democratico. Minniti ci ha aggiunto qualcosa: il radicale abbattimento dei diritti dei richiedenti asilo, cancellando il secondo grado di giudizio. E ha normalizzato, istituzionalizzato la geniale trovata di Alfano di spingere al lavoro interamente gratuito i richiedenti asilo in modo da dimostrare di “meritare” in premio (forse) il riconoscimento del loro status. Inoltre ha spinto ancora più in profondità dentro l’Africa la guerra agli emigranti dell’Italia e dell’Unione europea in due modi: attraverso una serie di accordi corruttivi con le bande del litorale libico condannando alla morte, alla carcerazione, alla tortura decine di migliaia di persone in fuga verso il territorio europeo; e a mezzo di accordi con i governi africani che, in cambio di “cooperazione tecnica” e di “fondi di sviluppo”, assicurano la loro collaborazione nel freno/filtro dei movimenti migratori. Insomma,

«bei nomi per quelli che sono in realtà mezzi di condizionamento neo-coloniale dei Paesi più poveri. I primi obiettivi di tale strategia sono quelli di impedire la chiusura del campo profughi (gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) di Dadaab in Kenya (ove sono ammassati 360.000 rifugiati somali) e di intervenire in Paesi africani come l’Etiopia, l’Eritrea, il Niger e la Nigeria, nonché in nazioni mediorientali come il Libano e la Giordania»6.

Il disciplinamento e la parziale cacciata delle Ong dal Mediterraneo rispondono alla logica di sempre più integrale militarizzazione delle politiche migratorie italiane ed europee affermata da un ministro Pd che siti di destra hanno definito con ammirazione “un ministro di ferro in un governo di latta”. E poiché la militarizzazione verso gli “esterni” intrusi va sempre di pari passo con quella interna contro i “disturbatori”, ecco il rafforzamento degli strumenti dei daspo che nel 2018 sono stati usati contro i lavoratori licenziati della FCA di Pomigliano, contro i militanti solidali con le lotte nella logistica e simili “disturbatori” della quiete urbana e peri-urbana. Ritornano, strettamente uniti tra loro, i temi di questo numero della rivista: neo-colonialismo, guerra agli immigrati, misure repressive sempre più stringenti e preventive anche contro cittadini italiani di origine controllata per stroncare sul nascere il conflitto di classe. In totale consonanza con gli orientamenti dell’Unione europea, che proprio alla fine del 2017 ha reso possibile l’allungamento dei tempi di detenzione nei kampi per richiedenti asilo e ha raccomandato maggiore severità nell’esame delle domande.

Dopo questa lunga preparazione del terreno, è arrivato il tempo di Salvini e dei Cinquestelle.

1 Cfr. A. Pansa, Chi bussa alla nostra porta, “Limes”, n. 2/2006, p. 99.

2 Cfr. Stop Wapenhandel – Tni, Expanding the Fortress, Amsterdam, maggio 2018, p. 34. La visione ideologica di questo rapporto è, comunque, da buttare; lo citiamo solo per le sue ammissioni e per i dettagli che contiene su questo processo.

3 Ivi, p. 35.

4 Cfr. A. Camilli, Chi guadagna con i centri di detenzione per migranti in Europa, “L’internazionale”, 13 giugno 2017.

5 Cfr. I. Gjergji, Sulla governance delle migrazioni. Sociologia dell’underworld del comando globale, Angeli, 2016.

6 Cfr. Assemblea della Statale – Calusca – No Borders Milano, Minniti e il suo mondo, Milano, dicembre 2017, p. 14.

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